2016-06-08 12:39:00

Cortile dei Gentili su dolore: né sacralizzazione né rifiuto


Quali sono i più frequenti errori nel modo di considerare la morte e la sofferenza? Il filosofo Silvano Petrosino, studioso dei legami tra razionalità e dimensione morale dell’agire umano, spiega: “Sono comunemente due: il primo è l’immediata sacralizzazione del dolore, quando subito sento di doverlo riempire di un senso trascendente. E’ un comportamento che ha una sua ragione ma così si rischia di giustificare qualsiasi cosa. L’altro errore è l’opposto, interpretare il dolore come un fastidio che bisogna subito togliere, eliminare a ogni costo. La fretta in questo caso fa perdere un tesoro che anche il dolore accompagna dentro di sé. Il dolore fa pensare e dunque il rischio è che si elimini anche la possibilità di pensare”.

Umberto Curi, professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, ha analizzato il rapporto amore e morte, dolore e destino: "Nella tradizione culturale dell’Occidente, sia nella componente greco latina che in quella giudaico cristiana, possiamo verificare un punto troppo spesso trascurato: il riconoscimento diffuso e ricorrente del carattere non puramente negativo del dolore e della sofferente. Il dolore è imprenscindibilmente legato alla conoscenza in una duplice direzione: da un lato la sofferenza è capace di accrescere la conoscenza, ci rende più maturi e più consapevoli, e dall’altra parte la conoscenza è essa stessa fonte di sofferenza. Allora dovremmo guadagnare un approccio al tema del dolore meno pregiudizialmente segnato dal rifiuto e da uno stato d’animo emotivo. Il dolore - sottolinea Curi - è ineliminabile dall’azione umana ma è anche connesso all’esperienza della maturazione. Le tante afflizioni che per esempio Giobbe deve subire non sono in contraddizione con la dimensione del riscatto e delle redenzione. La caratteristica del Cristianesimo è di presentare la sconfitta come una vittoria. Il proprium del messaggio cristiano è la valorizzazione di un sacrificio come mezzo per un mutamento radicale del destino individuale di coloro che lo ascoltano e più in generale come veicolo di riabilitazione ed emancipazione dell’intera umanità".

Il dolore come occasione di apertura all'altro

“L’uomo fa dei salti della propria consapevolezza di fronte alla difficoltà, è sempre stato così”, riprende Petrosino. “Da un lato non bisogna fare l’elogio della difficoltà - sarebbe una pulsione di morte questa - e una fede adulta deve evitare i sensi truculenti perché il Dio biblico è un Dio della vita. Dall’altro lato l’uomo, imbattendosi nel limite, ha una occasione di crescita, e questo è un aspetto vero anche per un non credente. In realtà – precisa il filosofo - gli scatti sono due: lo stupore e la morte. Sono entrambe esperienze dell’eccedenza (anche la morte lo è paradossalmente), in entrambe i conti non tornano. Ecco, qui scatta il luogo in cui l’uomo si rivela: la decisione. Di fronte all’empasse, all’ostacolo sulla via, scatta la decisione, un momento di rilancio. Così, se la sfida uno la tiene, l’accoglie, ha dei frutti sorprendenti. Per esempio, l’esperienza della sofferenza subita può aprire la strada ad una rabbia infinita nei confronti del mondo oppure, al contrario, ad una essenziale misericordia nei confronti del sofferente. Ecco il salto di umanità”.

Il dolore, dunque, come collante di comunità? “La sofferenza non bisogna augurarla a nessuno, bisogna curarsi laddove possibile, nessuna teorizzazione”, conclude Petrosino. “Detto questo, non si può fare a meno di riconoscere che è uno dei momenti fondamentali in cui l’uomo è chiamato a pensare all’altro. Ciò che rende insopportabile la morte non è la propria morte ma è la morte della persona amata. Perché noi, in definitiva, pensiamo all’amato. E’ la superficiale visione da bar quella che vorrebbe farci credere che le persone pensano solo al proprio piacere. La passione di Gesù è inscindibile dal dolore di Maria, sua madre”.

 

 

 








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