2016-05-20 16:31:00

Istat: precarietà e assenza di lavoro bloccano i giovani


In coincidenza con il novantesimo compleanno dell'Istituto, è stato presentato oggi alla Camera il Rapporto annuale dell’Istat: una fotografia dell’Italia che sta uscendo dalla crisi a passi lenti e con cifre non confortanti. Il servizio di Valentina Onori

“L’Italia sta uscendo da una recessione lunga e profonda sperimentando un primo importante momento di crescita persistente ma a bassa intensità”. E’ quanto ha affermato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva durante la presentazione del rapporto annuale alla Camera. Per il futuro il quadro non è entusiasmante. “Nel 2025 il tasso di occupazione resterà prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva", si legge nel Rapporto. Confermato il calo delle nascite: il numero medio di figli per donna decresce senza soluzione di continuità. Sempre più trentenni rimangono in casa con i genitori e si formano meno famiglie. “Rimane forte il legame tra redditi percepiti e contesto socio economico della famiglia di provenienza che ostacola la mobilità sociale”. C'è una correlazione dunque sempre maggiore tra il livello professionale dei genitori, la proprietà della casa e la posizione dei figli.  “I minori hanno pagato il prezzo più elevato della crisi in termini di povertà con un incidenza di povertà relativa al 19% nel 2014. Questo dovuto alle scarse opportunità di lavoro e del precariato dei genitori.” ha aggiunto Alleva. L’associazione tra povertà e numero di disoccupati si fa sempre più incisiva. Sul fronte migrazione il rapporto rileva che oltre il 72% degli under 18 è nato in Italia e la cittadinanza  italiana è un’aspirazione condivisa da un numero sempre più consistente di giovani stranieri. Si sente italiano il 38% degli stranieri under 18.

Sulle tendenze in atto e soprattutto sul rapporto giovani e lavoro, un commento del prof. Mario Morcellini direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. 

R. – Se la popolazione invecchia, noi sappiamo che c’è un sistema sicuro: quello di fare politiche familiari più attive e la seconda linea politica da innovare è quella sulle migrazioni. Le società moderne ringiovaniscono anche grazie ai flussi delle migrazioni, che sono un contributo serio anche a una seria scolarizzazione e alla coesione sociale. Occorre anche un ragionamento culturale, comunicativo – che non c’è – e di sostegni alle famiglie che tendono a disinvestire sulla genitorialità come segno di paura per il futuro. Quindi, il Rapporto delinea un altro elemento della crisi italiana, che non è solo paura del terrorismo, ma è paura del futuro in generale. Questo va rimosso: nessuna società può vivere senza apertura al futuro.

D. – Le principali tappe verso la vita adulta sono sempre più posticipate: si diventa “adulti” sempre più in là

R. – Solo la maturità istituzionale e quella lavorativa, perché dal punto di vista delle conoscenza, dei saperi, delle capacità anche a scuola, le generazioni nuove sono le più preparate nella storia. Vale soprattutto per le donne, dobbiamo ricordarlo: dalla fine degli anni Novanta sono diventate leader di formazione. Allora, il fatto che ci sia questo rinvio nel tempo di una situazione familiare autonoma, di una maturazione di una famiglia, di una scelta affettiva e quindi anche dei figli, certamente da un lato è una trasformazione culturale, quindi bisognerà fare i conti con l’idea che i giovani comunque rinviano nel tempo questa scelta di responsabilità per il futuro, ma per troppe persone questo è legato alla precarietà del lavoro e dell’occupazione.

D. – Però i giovani si danno molto da fare: cercano lavoro, sono cosmopoliti, vanno all’estero …

R. – Si danno molto da fare ma è difficile che abbiano un lavoro che li metta nelle condizioni di sicurezza per assumere la responsabilità di una famiglia e delle scelte conseguenti. Noi abbiamo bisogno del fatto che il lavoro diventi un lavoro che dopo un certo intervallo di prova sia un lavoro stabile, altrimenti condanniamo la società alla descolarizzazione ma soprattutto alla desertificazione dei nati.

D. – Se queste politiche non si faranno o non saranno così efficaci, qual è il rischio per i giovani?

R. – Fuggire all’estero – che è sempre una sconfitta per il nostro Paese – o giacimenti di protesta, che si vedono ancora a livello segnaletico. Ma non abbiamo alcun interesse a provocare conflitti tra le generazioni. E’ decisivo che la politica interrompa il circuito per il quale quasi tutte le risorse della società vanno ai “garantiti”. Non possiamo immaginare che i giovani siano fuori da questa parola.

D. – C’è poca mobilità sociale: quindi, se uno proviene da una famiglia benestante il figlio avrà delle possibilità in più. Anche questa è una sconfitta …

R. – Particolarmente grave, perché non era così solo 10-15 anni fa. La società italiana sta perdendo anche quei margini di emancipazione, di democratizzazione che noi consideravamo scontati: erano già timidi, ma si sono resi più labili. L’accesso alla scuola e all’università è sempre più classista rispetto al passato, soprattutto all’università. Buona parte dei figli dei poveri non ci pensano neanche lontanamente ad iscriversi all’università: lì c’è uno spreco di democrazia pazzesco! L’università dovrebbe essere il laboratorio più trasparente di una società. Un po’ di democratizzazione, anche la politica l’aveva portata negli anni passati. L’accesso alle classi dirigenti non era così paralizzato, l’università e anche la politica riuscivano ad essere un ascensore sociale. L’ascensore sociale dato dall’università si è bloccato e questo significa meno moderni rispetto a tutti i Paesi europei con cui retoricamente amiamo confrontarci.

D. – E’ un quadro, quindi, di un’Italia ferma?

R. – La risposta alla crisi, le classi più forti l’hanno interpretata nel senso di proteggere solo i propri figli; nessuna classe dirigente in Europa è così miope. Quando parlano di “andare all’estero”, non parlano mai dei propri figli, parlano dei figli degli altri. La classe politica italiana davvero ha studiato troppo poco e si documenta troppo poco sui dati per essere all’altezza di sfide epocali come quelle che stiamo vivendo.








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