2016-05-14 21:40:00

Vatileaks 2. Mons. Abbondi: Non avevo alcun ruolo in Cosea


Lungo interrogatorio in Vaticano nel processo per appropriazione e divulgazione illecita di documenti riservati. Ascoltati tre testimoni tra i quali mons. Alfredo Abbondi, capo ufficio Prefettura Affari Economici, più volte citato da imputati e testi. Si sono avvalsi invece della facoltà di non intervenire “in ragione del loro ufficio” mons. Konrad Krajewski, il cardinale Santos Abril y Castelló e il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, che in una nota ha precisato di “non aver alcun elemento su cui riferire in merito al rapporto tra” i due imputati “Chaouqui e mons. Vallejo”. Assenti oggi in aula i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, presenti gli altri imputati anche se Francesca Immacolata Chaouqui è arrivata a udienza aperta. La prossima udienza, come conferma anche la nota della sala Stampa Vaticana, si terrà lunedì 16. Massimiliano Menichetti:

Il primo teste della tredicesima udienza è stato il vescovo ausiliare, mons. Augusto Paolo Lojudice, il quale ha affermato di aver conosciuto l’imputata Francesca Immacolata Chaouqui circa un anno fa, su presentazione della dott.ssa Lucia Ercoli, "medico in Vaticano” e “direttore dell’Istituto di Medicina Solidale”. Ha ribadito che la donna gli sembrò “molto capace, con tante conoscenze e contatti” e che entrarono in relazione per “progetti” con finalità di caritativa. I due “ebbero vari colloqui su una struttura in via Prenestina, che i Padri” Missionari “Monfortani avrebbero voluto donare al Papa”, ma questo alla fine non avvenne anche perché l’edificio “fu occupato da altre persone”.

Renzi e Lorenzin
Mons Lojudice ha confermato che la Chaouqui “non prese mai alcun compenso” e che in relazione alle conoscenze da lei vantate, come il premier Renzi o il ministro Lorenzin, “all’inizio" ebbe "l’impressione che sparasse un po’ alto”, ma che “alla fine" dovette ricredersi. La donna gli fece conoscere l’imprenditore Ettore Sansavini, che gli “parlò di come affrontò la crisi dell’Idi e dell’ospedale San Carlo di Nancy”. Chaouqui favorì l’incontro anche con alcuni responsabili del social network “Twitter”, ma rimasero “incontri interlocutori”. Gli venne anche proposto un intervento “sulla misericordia” a margine del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, dove “avrebbe dovuto esserci anche il primo ministro italiano”, ma “non se ne fece più nulla perché iniziò il processo in Vaticano”. Mai incontrò mons. Angel Lucio Vallejo Balda.

Roberto Minotti e il buon clima
Il secondo teste ascoltato, dal Tribunale e dalle parti, è stato Roberto Minotti, all’epoca dei fatti responsabile del settore informatico della Prefettura per gli Affari Economici e oggi impiegato presso l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Minotti, a differenza di alcune testimonianze che lo hanno preceduto, ha presentato un clima lavorativo “bello e stimolante” in cui mons. Vallejo “era ricco di idee”. Ha detto anche che i rapporti “seppur sempre buoni” si “diradarono” con l’avvio delle attività di Cosea. Minotti pur rendendosi conto che alcuni colleghi avevano problemi caratteriali e personali con mons. Vallejo, ha ribadito di “non aver firmato le lettere inviate all’Ulsa e al Santo Padre sottoscritte dagli altri”, fatta eccezione per la lettera, scritta anni prima, riguardante i rapporti tra mons. Abbondi e l’archivista Paola Pellegrino.

Il sistema informatico
Il tecnico ha presentato l’architettura del sistema informatico in Prefettura, spiegando che i Pc potevano navigare in Internet, ma non si poteva accedere “dall’esterno alle rete locale”. La struttura era formata da “quindici computer e un server ai quali si accedeva tramite” un sistema di “privilegi”. Ovvero, ognuno aveva una propria password che usava per accedere a un computer e se, dopo questa operazione, l’utente si allontanava “chiunque avrebbe potuto consultare i documenti dal quel Pc”.

Due archivi
Il testimone ha anche spiegato che c’erano due archivi per la posta in uscita, “uno in formato cartaceo ed uno in formato elettronico”. Nel settembre 2015, mons. Vallejo gli chiese “se era possibile accedere dall’esterno”, un accesso fatto “da terzi” alla sua casella di posta elettronica. “Non sapevo al momento la ragione di questa domanda – ha detto – poi intuii che doveva essere collegata al tentativo di intrusione rilevato nel Pc del Revisore Contabile”. Rispose comunque “che qualunque hacker poteva farlo”.

Le chiavi della Prefettura
Sollecitato dalle domande, ha ribadito che “non aveva rapporti con la Chaouqui” se non per consueti saluti giornalieri e che "in ufficio si diceva che i consulenti esterni avessero le chiavi della Prefettura”, ma che "nulla di ufficiale" lo attestasse. Le chiavi per l’accesso allo stabile ha precisato che erano in possesso del “cardinale presidente, del segretario, del ragioniere generale e per un certo tempo del capo ufficio". Poi “furono cambiate” e Minotti non ha saputo “confermare se queste furono riconsegnate a mons. Abbondi”.

Mons. Alfredo  Abbondi
La terza e più lunga deposizione è stata quella di mons. Alfredo Abbondi, che in qualità di capo ufficio della Prefettura degli Affari Economici ha ribadito che “non aveva alcun ruolo in Cosea”, ma ha descritto un clima nel dicastero difficile sia nei confronti dei “superiori”, che per quieto vivere avallavano comportamenti “non consoni alle regole di ufficio”, sia nei confronti “dei dipendenti per il mancato rispetto”. Il prelato ha parlato di “delegittimazione” e confermato di “aver chiesto per quattro volte di essere trasferito”. “Non ero il più ascoltato su come gestire l’ufficio”, ha precisato.

Archivio ordinario e riservato
Il teste ha spiegato che in Prefettura esistevano un archivio “ordinario e uno riservato” e che per consultare il primo non erano necessarie particolari formalità. L’archivio riservato invece era sotto la responsabilità del segretario ed era contenuto dapprima “in un armadio in una stanza nei pressi di quella del Segretario e in un secondo momento, dopo il furto in Prefettura, nella stanza di mons. Vallejo”.

Il furto in Prefettura
Mons. Abbondi ha spiegato che dalla “cassaforte portarono via pochi soldi e delle monete” e “dall’armadio blindato prelevarono dei documenti dell’archivio riservato”, “alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa” tramite “la cassetta della posta del dicastero”. “Documenti di dieci, venti anni prima, che di fatto non avevano più alcun valore”. Su domanda di parte, ha precisato che nel “riordinare i fogli dopo l’effrazione”, vide che “gli atti contenuti nell’archivio erano non tanto relativi alla sicurezza dello Stato”, ma fatti “sgradevoli”. Ha confermato che si fecero molte congetture “sul furto e la successiva riconsegna”, ma “senza arrivare a una conclusione”. Ha negato che siano stati fotocopiati “documenti dell’archivio riservato”.

Attività di fotocopiatura
Sull’attività di fotocopiatura da lui svolta in relazione ai documenti sulle Cause dei Santi ha detto “di aver eseguito un incarico" affidatogli "dal segretario”, senza chiedere spiegazioni, non ritenendo “tale attività” anomala o “riservata”. Chiese e ottenne a sua volta, vista la mole di atti, “l’autorizzazione a delegare tale mansione all’usciere”. Un’attività “che si prolungò per circa quindici giorni”.

Estraneo a Cosea
Ha ribadito che non partecipava alle riunioni di Cosea “se non per scrivere lettere al Papa o al segretario di Stato”, quando chiamato da mons. Vallejo: “Recepivo i contenuti da scrivere”, ha sostenuto, "e nulla più". Su cosa si dicesse in quella sede ha riferito che molto è “coperto dal segreto pontificio” o segreto d’ufficio, ha accennato a diffidenze del “gruppo” nei confronti di un membro Cosea “poco trasparente”, a discussioni su un “fondo cassa presso lo Ior”.

Ambiente difficile
E’ poi tornato a descrivere l’ambiente difficile con i colleghi, un “clima non buono” e parlato dell’idea “del gruppo segreto” come del “frutto dell’enfasi di alcuni”. In quel contesto “era comprensibile – ha precisato – che in qualcuno possa essersi insinuata l’idea della cospirazione e del gruppo segreto”.

Inizio e fine Cosea
Ha distinto anche lui “un prima e un dopo” attività di Cosea. Un primo tempo in cui l’attività si concentrava nella sede della Commissione, presso Casa Santa Marta ed un poi, verso la fine dei lavori, quando “l’archivio venne preso in carico dalla Segreteria per l’Economia”. A questo punto – ha detto il prelato – “mons. Vallejo si confidava e sfogava, anche per quaranta minuti”, per il “disinteresse per l’enorme mole di dati che avrebbe potuto essere di grande aiuto nella riforma economica, finanziaria e gestionale” voluta dal Papa.

Le minacce e microspie
Mons. Abbondi poi parla “di minacce” ricevute dai dipendenti e “della convinzione della presenza di microspie nelle stanze”, idea questa ingenerata dalla Chaouqui che avrebbe portato in Prefettura un esperto per far bonificare le stanze. Il capo ufficio racconta dell’episodio in cui nella sala di mons. Vallejo, la donna sarebbe salita su una scala e dopo aver armeggiato in una scatola elettrica, “buttò fuori dalla finestra qualcosa”. Il teste ha dichiarato di aver consigliato di “chiamare la Gendarmeria” e che la Chaouqui disse che era meglio non farlo “per non innalzare il livello di controllo”. “Mons. Vallejo non era preoccupato e suggerì che bisognava imparare a parlare come se ci ascoltassero”. Ha raccontato delle volte in cui i due andavano “a parlare su un terrazzo” proprio per sfuggire alle microspie, ma senza avere qualcosa da nascondere.

Chaouqui e i Servizi Segreti
Ha confermato che mons. Vallejo “accreditava la Chaouqui presso i Servizi Segreti” e di ritenere “che fosse stata lei a farglielo credere”. Ha negato però di aver visto documenti comprovanti questa “appartenenza ai Servizi o Forze di Polizia”. Ha confermato di aver partecipato a cene e pranzi con l’imputata, tra cui quello con Paolo Berlusconi, dove “si parlò genericamente di Vaticano e in cui” lui “mostrò alcuni giochi di prestigio”.

I contatti della Chaouqui
Anche mons. Abbondi, come mons. Lojudice, ha in sostanza avallato che la donna non fosse una venditrice di fumo, ma che “tanti rapporti li avesse”. Sollecitato sul punto, ha detto che la relazione tra il segretario della Prefettura e di Cosea e la Chaouqui si incrinò per il diniego del monsignore, che non favorì “l'ingresso di una troupe televisiva ai Musei Vaticani”. Lui “prese le distanze”.

La canonizzazione dei due Papi
Il Promotore di giustizia ha poi mostrato a mons. Abbondi una sua foto scattata sulla terrazza dove venne installato il palco per la Canonizzazione dei due Papi. Lui ha spiegato “che tale evento fu religioso e non mondano” e che la tensostruttura “venne montata, dopo aver chiesto le necessarie autorizzazioni all’Apsa, per la tardiva conferma di posti riservati in Piazza San Pietro”.

La lettera minatoria
Gli è stata mostrata anche la stampa di una lettera contenente minacce in lingua inglese che il prelato custodiva nel cellulare da più di un anno. Mons. Abbondi ha ricostruito che nell’aprile 2014 una “lettera con francobollo inglese arrivò in Prefettura ed essendo assente il segretario” aprì la busta per renderne poi conto. Ha confermato di non saper "dare spiegazione del testo”, di aver scattato la foto e di averla dimenticata nel dispositivo come “spesso accade” per altri scatti.

Fralleoni e Maio
Su Stefano Fralleoni ha espresso giudizi positivi e “stupore” quando ha saputo della sospensione dall’incarico, anche se ha ammesso di aver pensato ad alcuni rilievi che lui stesso aveva mosso tempo prima. Ha dichiarato che il ragioniere generale non ha mai sollevato perplessità sulle riunioni “Cosea” alle quali il prelato era chiamato. Ha descritto Nicola Maio come persona “discreta, riservata e collaborativa”, con compiti di “segretario operativo”, che “divenne stabile in Prefettura dopo la fine dei lavori di Cosea” per gli adempimenti di chiusura. “Cessò le funzioni dal Natale 2014, non tornando più in Prefettura”.

Prefettura non più operativa
Il Capo Ufficio ha detto che “oggi la Prefettura esiste giuridicamente, ma non è più operativa poiché il Santo Padre” aveva già previsto “la creazione di nuovi organi”.La questione delle chiavi dello stabile è stata sottoposta anche al Capo Ufficio, il quale ha confermato il possesso di una copia fino a quando non vennero sostituite, le avevano anche il Cardinale presidente, il  Segretario, il Ragioniere Generale e l’usciere. Nessuna conferma sul possesso da parte dei consulenti esterni.

I rapporti con l’archivista e Henkel
Sollecitato dalle domande, ha confermato i rapporti complessi con la signorina Paola Pellegrino e “con altri” dipendenti e di aver conosciuto il filantropo tedesco, Kristof Henkel.








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