2016-04-08 14:00:00

Birmania, governo rilascia decine di prigionieri politici


A una settimana dal suo insediamento, come promesso dalla leader birmana, Aung San Suu Kyi, il governo del Myanmar ha liberato una settantina di prigionieri politici, arrestati un anno fa, tramite un provvedimento di amnistia. Maria Laura Serpico ha chiesto al presidente dell'Associazione Amicizia Italia-Birmania, Carlo Ferrari, quale significato abbia questo gesto all'interno del processo di democratizzazione del Paese:

R. – E’ stato il primo atto ufficiale di Aung San Suu Kyi nella sua nuova veste di "State Councilor" e credo sia direttamente in linea con quanto è stato affermato nel discorso di insediamento del nuovo presidente, Htin Kyaw, quando ha parlato del punto principale dell’azione del nuovo governo: la riconciliazione nazionale. Questo necessariamente deve portare ad una risoluzione del problema dei prigionieri politici che, tra l’altro, negli ultimi mesi del governo precedente ha avuto qualche recrudescenza.

D. – Molti arresti sono frutto del regime precedente. La liberazione dei prigionieri rischia di irrigidire il rapporto con le Forze armate particolarmente influenti sul piano economico?

R. – Sicuramente, il percorso di Aung San Suu Kyi è un percorso molto difficile. Da un lato, lei ha sempre sostenuto la riconciliazione nazionale e ha sempre sostenuto che l’esercito è una parte fondamentale del Paese e deve essere al servizio del Paese. Ciò detto, sappiamo che la Costituzione, che è stata promulgata dal governo precedente, ha diversi aspetti che non sono compatibili con la Costituzione di uno Stato democratico, tra cui questo ruolo affidato ai militari: o il 25% dei seggi del parlamento di nomina e non dovuti a elezioni libere, o anche il fatto che i militari abbiano per Costituzione il Ministero della difesa, dell’Interno e delle Frontiere. Inoltre, uno dei due vicepresidenti del governo deve essere un militare. Sostanzialmente, nella nuova situazione c’è un governo democraticamente eletto al potere politico, ma il potere economico è largamente in mano ai militari. Io credo, però, che il nuovo governo si stia muovendo molto bene ed è essenziale che questi gesti vengano seguiti in modo sostenibile, senza avere degli scontri. E’ chiaro che c’è molta attenzione a quello che è il riscontro dei militari. L’abbiamo visto quando con il primo provvedimento del nuovo presidente – la creazione di questo "State Councilor" – il 25% dei militari presenti in parlamento hanno dimostrato un certo irrigidimento. La situazione, però, per il momento pare andare nella giusta direzione.

D. – Proprio in questi giorni, il ministro Gentiloni è in visita in Birmania e ha dichiarato di apprezzare la decisione di mettere in libertà i prigionieri. L’Italia è, quindi, sempre in primo piano nel sostenere il cammino verso la democratizzazione…

R. – Io credo che la visita del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sia molto importante. Avviene a sei giorni dall’insediamento di Aung San Suu Kyi come "State Councilor" in Birmania ed è un segnale forte che viene dato alla priorità che il Ministero degli esteri italiano assegna alla situazione della Birmania. Ricordiamo che la Birmania è all’interno di un’area, quella del Sudest asiatico, che ha avuto i più grandi tassi di crescita negli ultimi anni. E’ un’area a cui, dal punto di vista economico, molti stanno guardando come possibile area di grande sviluppo, considerando che la Cina sta un po’ rallentando il passo e l’India non è mai veramente decollata, nonostante tutti se lo aspettassero. Ci sono anche dei segnali: i Paesi del Sudest asiatico si stanno unendo in un mercato comune, quello dell’Asean, e stanno ragionando in termini di valuta unica. Quindi, è sicuramente un’area molto, molto interessante. Il fatto poi che il ministro Gentiloni abbia formalmente affermato, nelle dichiarazioni della conferenza stampa al termine dell’incontro, che l‘Italia appoggerà ogni sforzo per conseguire la pace e l’unità del Paese, chiaramente è un avallo della posizione di Aung San Suu Kyi. Un appoggio seguito, poi, anche da accordi bilaterali di cooperazione in vari ambiti: scientifico, tecnologico e di fornitura di tecnologia. E vorrei sottolineare anche questo aspetto, che è interessante anche per la peculiarità dell’Italia, che è la cooperazione in ambito culturale.

D. – Qual è il ruolo della minoranza cristiana, presente in Birmania?

R. – Credo sia fondamentale. E’ una minoranza che arriva al 6-7% della popolazione – quindi parliamo di qualche centinaia di migliaia di persone – ma è estremamente attiva nella gestione dei conflitti etnici e religiosi all’interno del Paese. La Chiesa in questo momento è in prima linea per supportare lo sforzo di Aung San Suu Kyi per la riconciliazione nazionale e la costruzione della pace. Ci sono state già dichiarazioni della volontà del governo di creare uno Stato di stampo federalista e un governo in cui tutte le varie minoranze, sia etniche che religiose, possano trovare il loro spazio.








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