2016-04-06 14:00:00

In Italia ancora difficile l'integrazione delle comunità islamiche


Capire come vivono le comunità islamiche in Italia, in che modo si sono integrate nelle differenti città, come vengono cresciuti i loro figli.  Sono questi alcuni aspetti che vengono affrontati nel libro “Comunità islamiche in Italia. Identità e forme giuridiche”, presentato ieri pomeriggio a Roma alla Lumsa, la Libera Università Maria Santissima Assunta. Il testo, che raccoglie ricerche fatte da diversi docenti universitari, è stato curato dal giurista Giuseppe Dalla Torre, e dal costituzionalista Carlo Cardia. Marina Tomarro ha raccolto il commento del professore Dalla Torre:

R. – L’idea di questo libro nasce dal fatto che, come noto, negli ultimi anni vi è stato un processo di immigrazione da Paesi di religione e di cultura islamica numeroso, che ha creato una serie di problemi, anche tante forme di solidarietà, ma – certo – un problema di accoglienza, di integrazione, e problemi di carattere giuridico notevoli. Qui siamo di fronte ad una religione davvero diversa, e questo pone una serie di problemi: dagli usi ai costumi, ai principi morali: pensiamo ad esempio in materia matrimoniale, sessuale, di rapporti tra uomo e donna, e quant’altro. Di fronte ad una realtà che è variegata, non si è riusciti ad andare in porto, fino adesso, con il sistema previsto dalla nostra Carta costituzionale: ossia il sistema delle intese e degli accordi tra le confessioni religiose. Perché l’Islam non è strutturato in un’istituzione, ci sono più Islam, e quindi non si sa bene chi rappresenta chi. D’altre parte è necessario, non solo per i problemi di carattere religioso, ma anche per tutti gli altri aspetti, come la materia del vitto, il problema dei carcerati, i bambini nelle scuole ecc., provvedere ad un’evoluzione del nostro ordinamento giuridico che permetta una migliore integrazione di questi stranieri nell’ambito del nostro Paese.

D. – Come sta andando l’integrazione in Italia delle comunità musulmane, anche alla luce dell’integrazione negli altri Stati europei?

R. – Credo che la nostra esperienza, da un lato sia un handicap, ma dall’altro un vantaggio. Nel senso che non siamo tentati, come invece accade ed è accaduto altrove, dall’idea dell’assimilazione, e a tal proposito penso al modello francese; né dall’idea della segregazione o della ghettizzazione, e penso a ciò che è accaduto in Belgio, in quartieri che sono completamente islamici, in qualche modo quasi una città nella città, un Paese nel Paese. Noi abbiamo poi anche il grande vantaggio di una società civile forte, animata essenzialmente dalle realtà del mondo cattolico che ha delle forti tendenze alla solidarietà. Credo che questo possa essere un buon presupposto.

D. – I recenti episodi di terrorismo quanto hanno reso più difficile questa integrazione?

R. – Non c’è dubbio che questo ha creato un allarme sociale e un atteggiamento di diffidenza. E tuttavia dobbiamo fare delle distinzioni, vedere al fatto che si tratta di minoranze che appartengono ad una determinata comunità nazionale ormai da due o tre generazioni. Quindi non sono coloro che vengono appena oggi sul nostro territorio, sul continente europeo; ma sono persone che sono nate, cresciute, che sono state educate nelle nostre scuole, nelle nostre – nel senso di europee – università. E quindi è un fenomeno un po’ diverso. Comunque la nostra è una ricerca che vuole conoscere non tanto dal punto di vista sociologico o statistico, ma da quello giuridico – il che significa leggi, ma anche contratti di lavoro, rapporti di carattere sindacale, e così via – che cosa abbiamo fatto, che cosa manca, in quale misura ci sono ancora passi da fare. 

Ma il cammino per l’integrazione delle comunità islamiche in Italia, soprattutto dal punto di vista legislativo, è ancora molto lungo, come spiega il costituzionalista Carlo Cardia, anche lui curatore del testo:

R. – Non si sono integrati in Italia. Vivono in Italia. Alcuni hanno fatto dei passi in avanti per un’integrazione; ci sono degli esponenti molto attenti, rispettosi delle nostre leggi. Quindi ci sono le condizioni per l’integrazione, ma questa non c’è stata, perché non si sono organizzati in confessione religiosa. Non hanno questa idea di fare uno Statuto, come chiede l’art. 8 della Costituzione.

D. – Allora in che modo si può cercare di favorire questa integrazione?

R. – Lo Stato potrebbe intervenire offrendo il sostegno proprio per fare gli Statuti insieme. Il problema è che quando si fa lo Statuto, si devono riconoscere i diritti e i doveri dei fedeli; si devono riconoscere i diritti previsti dalla Costituzione e dalla Carte internazionali, a cominciare dal rapporto uomo-donna.








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