2016-03-12 14:00:00

Siria: domani i colloqui di pace a Ginevra. Tregua fragile


Alla vigilia dell’avvio dei negoziati di pace per la Siria a Ginevra, nel Paese la tregua regge solo parzialmente. Intanto si mette a punto il pacchetto di questioni che dovranno essere discusse dal governo di Damasco, dalle opposizioni e dai mediatori internazionali. L’auspicio dell’Onu è che si vada subito al voto per elezioni generali. Ce ne parla Giancarlo La Vella:

Elezioni presidenziali e parlamentari entro 18 mesi. Lo ha detto ieri l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, praticamente a poche ore dai colloqui di Ginevra, decisivi per il futuro del Paese al quinto anno di guerra. Da dopodomani al centro dei negoziati anche le questione del varo di un nuovo governo e di una nuova costituzione. De Mistura sottolinea che, se si andrà alle urne, saranno consultazioni sotto lo stretto controllo dell’Onu. Intanto, sul terreno, dopo due settimane, il cessate il fuoco sta funzionando a macchia di leopardo. Gli Stati Uniti puntano il dito contro il regime di Damasco e si dicono preoccupati dalle numerose violazioni della tregua, che coinvolgono troppo spesso la popolazione civile. Emblematico il commento del nunzio apostolico in Siria, mons. Zenari. Ai microfoni di TV 2000 il presule afferma: “Da due settimane a Damasco non ci sono bombardamenti, ma nel resto della Siria c’è ancora sofferenza. Oltre 10 mila bambini – sottolinea – hanno perso la vita in questo conflitto”.

Sulle speranze dell’Onu per una stabilizzazione della Siria, Giancarlo La Vella ha parlato con Lorenzo Trombetta dell’Ansa di Beirut:

R. – Da un punto di vista militare, sicuramente sembra prematuro. Certamente è uno sguardo che guarda molto lontano, e che sembra non tener conto di tutta una serie di ostacoli che ci sono sul terreno e che ci saranno anche a livello diplomatico.

D. – Nel novero degli argomenti esposti dall’Onu manca la questione Stato Islamico…

R. – Perché la questione dello Stato Islamico, nella narrativa dell’Onu, e in generale in quella degli Stati Uniti e della Russia, è una questione quasi disgiunta da quella della lotta per il potere in Siria. Come se la guerra all’Is fosse rubricata nella grande questione della guerra al terrorismo jihadista, come se non avesse nulla a che fare con le violenze in corso in Siria dal 2011. Quando poi sappiamo che l’Is arriva in Siria e in Iraq in un contesto fortemente dominato dalla violenza, dal vuoto di potere istituzionale locale. E quindi la sua presenza è strettamente legata, e quindi anche la lotta all’Is, alla questione della lotta per il potere in Siria. Questa, secondo me, è una delle contraddizioni nella teoria del processo di pace in Siria, per cui la lotta all’Is è una cosa e prosegue su un binario, mentre la lotta invece tra il cosiddetto regime e opposizioni siriane è un’altra questione.

D. – Le parti sembrano più concentrate su quello che potrà essere il ruolo del Presidente Assad…

R. – Questa è una questione sollevata sin dal 2011 dalle opposizioni siriane. Il governo cerca di spostare l’attenzione, invece, parlando di una lotta al terrorismo come “priorità” cercando di riportare l’attenzione sul fatto che la Siria non è una guerra tra chi vuole Assad e chi non lo vuole, quanto invece è una lotta tra chi non è veramente siriano e chi invece vuole il ristabilirsi della sicurezza e della stabilità. Al di là di questo, sappiamo che la lotta per il potere in Siria passa per il futuro personale, politico, di Bashar al-Assad.

D. – Un’altra cosa che sembra mancare dall’elenco degli argomenti in discussione è la soluzione del problema umanitario: dopo cinque anni di guerra la popolazione siriana è allo stremo. Sei d’accordo su questo?

R. – Assolutamente. Anche in questo caso la questione umanitaria non può essere disgiunta da quella politico-militare. La questione umanitaria è effetto di tutto questo groviglio. Quindi continuare ad occuparsi principalmente, come fanno molti Paesi della Regione e anche i Paesi occidentali, di portare aiuti o di come questi ultimi possono arrivare nelle regioni assediate, è come mettere un cerotto su una ferita molto ampia. Ma se non si va alle radici del conflitto che causa questa ferita, continueremo ad investire e a metter soldi su un conflitto che continuerà, perché da altre parti arriveranno armi, direzioni politiche, per cui l’uno o l’altro attore locale dovrà continuare a gestire il territorio usando le armi. 

Intanto, a cinque anni dall'inizio della guerra, Oxfam ha pubblicato un rapporto su quanto accaduto nel 2015. Fausta Speranza ne ha parlato con Riccardo Sansone, di Oxfam Italia:

R. – L’ultimo anno ha registrato il numero più alto di morti dall’inizio del conflitto. E’ difficile quantificare esattamente il numero complessivo: le Nazioni Unite stimano intorno alle 50 mila perdite nel 2015, per un totale complessivo di 250 mila vittime dall’inizio del conflitto, ma si dice che siano anche di più.

D. – Che dire del ruolo della comunità internazionale proprio in relazione ai civili?

R. – Noi oggi usciamo con un Rapporto, insieme ad altre organizzazioni non governative internazionali e siriane, che analizza un po’ quelle che sono state le richieste dell’ultimo anno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le mette a confronto con quella che è stata la realtà sul campo e anche con quello che è stato poi il comportamento e l’atteggiamento dei singoli Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Abbiamo fatto l’analisi in tre ambiti principali, che sono appunto la protezione dei civili, l’accesso umanitario e le comunità che vivono sotto assedio. Per ognuno di questi tre ambiti, il Consiglio di Sicurezza si era espresso chiedendo un’attuazione di azioni concrete per migliorare la condizione, sostanzialmente, alla fine, dei civili, e in tutti e tre gli ambiti purtroppo abbiamo rilevato, dati alla mano, che c’è stato un netto peggioramento, segnando appunto il 2015 come l’anno peggiore dall’inizio della crisi.

D. – L’Oxfam lancia un’iniziativa particolare a questo punto…

R. – Dopo cinque anni pensiamo che sia giunto il momento di dire “basta”, “adesso basta” e abbiamo lanciato unitamente a questo Rapporto una campagna, appunto “Adesso basta”, in cui chiediamo l’impegno sostanziale, ai tre attori principali - tutte le parti in conflitto, compresi i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che sono a tutti gli effetti coinvolti nel conflitto - di fermare immediatamente gli attacchi sui civili e fare in modo che l’accordo per il cessate-il-fuoco raggiunto recentemente possa reggere e possa portare ad una soluzione di pace duratura e permanente; chiediamo anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di intraprendere i passi necessari affinché coloro che sono responsabili di violazioni, di crimini di guerra, siano ritenuti a tutti gli effetti responsabili; e sostanzialmente chiediamo coerenza con quanto viene richiesto ed emanato dal Consiglio di Sicurezza. Non può essere che un organo che fa delle richieste così puntuali e necessarie per la sopravvivenza dei civili in Siria, poi venga smentito dagli stessi Stati membri che lo compongono attraverso azioni militari dirette o supporti gruppi armati.

D. – A 5 anni dallo scoppio del conflitto, il Rapporto ha un titolo singolare “Benzina sul fuoco”, perché?

R. – Volevamo richiamare l’attenzione al fatto che nonostante siano state emanate diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, poi chi effettivamente avrebbe il potere di applicarle, di metterle in pratica, non lo fa affatto, anzi, se andiamo ad analizzare le azioni dei singoli Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ognuno di essi nel 2015 ha iniziato operazioni militari, producendo un aumento della difficoltà, ad esempio, nel rifornimento degli aiuti umanitari nelle zone sotto assedio: è aumentato il numero delle persone in fuga; sono aumentati i morti civili. Tutto questo si è mosso in una direzione contraria a quelle che erano state appunto le richieste del Consiglio di Sicurezza.








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