2016-02-15 14:10:00

Jurkovič: incontro tra Francesco e Kirill, simbolo per il nuovo millennio


Una conversazione “tra fratelli”, per una unità che “si fa camminando”. Queste le parole di Papa Francesco, subito dopo l’incontro all’aeroporto dell’Avana con il Patriarca ortodosso russo Kirill. Nella Dichiarazione comune, firmata al termine del colloquio, il Pontefice e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia hanno posto l’accento su alcuni temi di particolare importanza in “un periodo di cambiamento epocale” per la civiltà umana: hanno ricordato, tra l’altro, le persecuzioni dei cristiani in Merio Oriente e non solo, la violenza e il terrorismo, la crisi della famiglia in molti Paesi. La riflessione dell’arcivescovo Ivan Jurkovič, finora  nunzio apostolico presso la Federazione Russa, parte proprio dalla voce in difesa dei cristiani perseguitati. L’intervista è di Giada Aquilino:

R. – Questo mi sembra che sia il contenuto più profondo di tutto l’incontro, che è un evento già di per sé straordinario, atteso, desiderato, ma anche un incontro di emergenza. La comunità cristiana è cioè sempre responsabile per coloro che soffrono e addirittura ha l’obbligo solenne di ricordare anche quanti sono morti.

D. – C’è quindi un “ecumenismo del sangue”, come lo ha definito Papa Francesco...

R. – Il Papa ha spiegato anche che nessun persecutore dei cristiani chiede a quale confessione appartengano. Vuol dire che quelli che odiano il cristianesimo ci considerano già uniti.

D. – Dove porta l’appello congiunto alla comunità internazionale, per porre fine a violenze e terrorismo, a lavorare per ristabilire la pace in Medio Oriente, ma anche l’appello alle parti a partecipare al tavolo dei negoziati?

R. – Le complicazioni della vita internazionale negli ultimi anni sono state uno choc. Nessuno si aspettava che la vita internazionale, le relazioni internazionali potessero deteriorarsi così rapidamente e senza trovare risposte efficaci. Tutto quello che si riesce a fare, forse, è rimandare un po’, ma le soluzioni non ci sono. Si tratta, indubbiamente, di due personalità visibilissime nel mondo – il Papa e il Patriarca Kirill - e l’effetto che avrà la loro Dichiarazione va al di fuori delle formulazioni verbali. Si tratta, cioè, di un simbolo: esiste una vera, serena solidarietà tra i cristiani, costruttiva, non vendicativa, non aggressiva, con una preoccupazione che deve essere ascoltata e che deve essere seguita forse anche dall’azione della comunità internazionale. Quello che mi sembra importante è che questo valore simbolico che si sente pure nel popolo è enorme. La fotografia che è venuta fuori all’aeroporto dell’Avana rimane quasi un simbolo per il nuovo millennio: si tratta, cioè, di una nuova maturità anche della comunità dei credenti cristiani, maturità che porta questa diretta responsabilità per il destino del mondo.

D. – Emerge poi una forte preoccupazione per la crisi della famiglia, quindi famiglia intesa come costruita sul matrimonio, come atto di amore di un uomo e una donna di fronte ad altre forme di convivenza che – si dice – vengono poi poste sullo stesso piano…

R. – La Chiesa ortodossa russa, la tradizione ortodossa, si sente forte, anche se soffre gli stessi travagli che soffre la società moderna, specialmente l’instabilità del vincolo matrimoniale e tante altre cose legate alla morale familiare. Ma la cosa interessante è che il mondo orientale ha preservato questa solidità di fronte alla legge di Dio. Anche, quindi, se non si sa interpretare, anche se forse non si segue con la stessa disciplina, rimane questo rispetto verso il sacro, mentre l’Europa lo ha perso radicalmente. Gli ortodossi, da quello che ho sentito in questi giorni, hanno ripetuto che sono venuti come “un pronto soccorso” per la Chiesa cattolica, che si trova in un ambiente molto scristianizzato, dove i valori eterni sono così fragili. Io penso che un po’ di verità ci sia in questo, anche se non si deve semplificare niente: tutti viviamo in una trasformazione della società, che dovremo affrontare serenamente anzitutto con la vita cristiana.

D. – Cosa unisce le due comunità, a proposito dei fondamenti dell’esistenza umana? Si fa riferimento al “diritto inalienabile alla vita” di fronte ad aborto, eutanasia, manipolazione attraverso le tecniche di procreazione…

R. – Penso a quello che è sempre stato il senso comune, il senso cristiano: uno sguardo sereno agli istituti tradizionali così importanti come la famiglia. Come a dire: quando ci guardiamo negli occhi – anche se le Chiese sono strutturate, hanno un capo, un responsabile, dei vescovi – mi sembra ci sia una concordia totale, non tanto nel senso dei dettagli, ma nel non toccare quello che è il fondamento antropologico della famiglia cristiana, quello che era poi anche la famiglia tradizionale. Tutto il territorio asiatico-europeo è basato sullo stesso concetto della famiglia, che adesso è messo in grave pericolo per le nuove proposte con le quali, per una piccola minoranza di persone, si cerca di cambiare il concetto globale di una cosa così preziosa, così storica.

D. – Si dice “no” al proselitismo. Poi c’è la pagina delle tensioni tra greco-cattolici e ortodossi, che quindi non si negano…

R. – Dichiarazioni del genere sono dichiarazioni che costituiscono un messaggio per la comunità, ma le difficoltà si comprendono meglio, più adeguatamente, quando si sta in loco. Per noi è un appello a stare attenti a quello che succede in loco. Spesso infatti ci sono interpretazioni che modificano la verità. Non bisogna quindi entrare in affermazioni polemiche, ma cercare di uscire da questa situazione non facile con questo nuovo sguardo, questo nuovo ottimismo, anche con una nuova volontà di superare le posizioni sia da una parte sia dall’altra. Cosa meglio di un incontro così poteva essere di sprone ad un nuovo inizio di qualcosa di positivo?

D. – “L’unità si fa camminando”, ha detto Papa Francesco con Kirill. Il prossimo passo quale sarà?

R. – Indubbiamente, è promettente. Qualcuno ha già detto che forse con questo si apre un dialogo più sereno con tutta l’ortodossia, anche se alcune Chiese ortodosse faticano nel comunicare con Roma, ma non tutte. E questo sarebbe il primo passo: superare questa divisione radicalmente. Che poi non è una divisione di principio ma piuttosto di tradizioni. Questo è stato completamente superato dall’evento di Cuba. Io penso: normalizzare, non fare cioè di un evento così normale, come quello di un incontro tra due fratelli, un evento straordinario. Questo è un evento familiare, questo è un evento anche relativamente frequente, se parliamo di un “fratello”, di una cosa così normale, così umana e così necessaria.








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