2016-01-30 14:30:00

Gli italiani leggono poco: la riflessione di Nicola Lagioia


Risultati mediocri per la cultura in Italia nel 2015. I dati Istat rilevano che, l’anno scorso, il 18,5% degli italiani non ha svolto alcuna attività culturale. Natalia La Terza ne ha parlato con lo scrittore e premio Strega Nicola Lagioia, iniziando con la fascia dei lettori più forti del nostro Paese nel 2015, i ragazzi tra gli 11 e i 19 anni:

R. – Sono quelli che ancora non lavorano. I consumi culturali sono anche legati al reddito, perché se si vanno a vedere quali sono le regioni che leggono di più, queste sono quelle che hanno un Pil più alto. C’è ancora una disoccupazione giovanile enorme in Italia, specie al Sud. Avendo meno soldi in tasca, credo che i ragazzi leggano meno libri. Sono contento che la lettura coincida con la scuola, perché, quando ero ragazzo io, di solito a scuola si smetteva di leggere. Perché poi i professori non mettono mai in mano i libri agli studenti: fanno sempre leggere le note, i commenti, le critiche a dei libri che poi non arrivano mai. Sembrava che Moby Dick fosse stato scritto apposta perché qualche professore lo commentasse; e quindi Moby Dick non lo mettevano mai in mano agli studenti e questo non soltanto alla scuola superiore, ma anche all’università. Spesso gli studenti leggono tutti i commenti, i più disparati, intorno a grandi romanzi, che poi però non avvicinano mai, non leggono mai, se non a stralci. Il dato conferma il fatto che l’Italia è un Paese abbastanza arretrato in Europa per quanto riguarda gli indici della lettura, anche se però, in quest’ultimo anno, c’è stato un timido +1% rispetto allo scorso anno riguardo gli italiani che comprano libri. Dovrebbero pensarci anche le istituzioni: esiste un Ministero della Cultura, delle istituzioni culturali, la scuola, l’università… Sono questi che dovrebbero trovare la soluzione a questi problemi. Il dovere degli scrittori è provare a raccontare delle buone storie.

D. – Nel 2015, il 42% degli italiani ha letto libri; il 92,2% ha guardato la televisione. Può un campo aiutare l’altro? Si può fare cultura in Tv?

R. – I canali culturali sono realtà minoritarie. Il 92% non è la percentuale di italiani che vede Rai5 o le serie. Sembra che le serie le vedano tutti, ma in realtà si tratta anche in questo caso di una piccola élite culturale. La televisione che fa grandi numeri è quella di Sanremo: quella nazional-popolare. C’è un problema di evoluzione. Abbiamo delle grandi strutture, come la Rai - la televisione pubblica - che però poi partorisce dei prodotti che sarebbero stati antiquati già 20 anni fa. Non dico che bisogna tornare alla televisione pedagogica degli anni ’50, però perlomeno che entri nelle case degli italiani, che non riescono ad informarsi o ad accedere a Netflix, con dei prodotti che abbiano scritto sul loro talloncino “2016” e non “1940”, come invece sembrerebbe guardandoli. Questo credo che sia un auspicio che sia giusto avere.

D. – L’anno scorso, meno della metà della popolazione ha letto quotidiani. La stampa italiana dovrebbe ripensare la sua offerta?

R. – Il problema dei giornali italiani è che, prima ancora di aprirli, si sa già che cosa c’è scritto. Il Pasolini corsaro che tanto viene rimpianto era possibile perché c’era un direttore del Corriere della Sera, Piero Ottone, che chiamò un intellettuale a fare l’ospite ingrato: a scrivere cioè degli editoriali che quasi sempre erano contro la linea editoriale dello stesso giornale che lo ospitava. Questa cosa sui giornali italiani non accade e i lettori se ne accorgono. Mancano i reportage: quell’attività giornalistica che va sul posto, vede le cose, e anziché interpretare l’Ansa, racconta ciò che vede. Ho elencato le colpe dei quotidiani, ma c’è anche un’attenuante: Internet. La gente compra meno i quotidiani perché si informa grazie alla rete. E il problema della rete è che ci siamo abituati a prendere le cose gratis. La rete genera un sacco di soldi, ma il 99,9% di questi ultimi vanno a chi offre i contenitori e non a chi offre i contenuti. Google, Facebook, Spotify accumulano fatturati incredibili e però poi pochissimo va a chi mette i contenuti. La crisi dei giornali dipende anche da questo. A ciò dobbiamo aggiungere il loro poco aver coraggio; e faccio un esempio: l’Unità che torna in edicola diventa il giornale del Pd; poi però diventa un giornale filo-governativo peggio della Pravda. E chi se lo compra? Ho fatto questo esempio che è il più eclatante, ma anche il più giusto prendendo il giornale del governo in carica: questo è il quadro che io vedo. Non so come andrà a finire.








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