2015-12-13 10:06:00

Violenze in Burundi: oltre 80 morti, ma non è guerra tra Hutu e Tutsi


Giornate di scontri e violenze in Burundi, dove circa 90 persone sono rimaste uccise nella capitale Bujumbura, in quello che è l’episodio più grave dallo scorso maggio, quando sono cominciate le proteste contro la rielezione, per la terza volta consecutiva, del presidente Nkurunziza.150 uomini armati hanno attaccato tre basi militari nei pressi della città e sono stati fermati da esercito e polizia. Non è chiaro, invece, se nel bilancio fornito dalle autorità siano compresi i 28 corpi ritrovati nelle strade dei quartieri in cui è più forte l’opposizione al presidente. Ma a dieci anni dal conflitto interetnico tra Hutu e Tutsi, c'è il rischio di una nuova guerra civile in Burundi? Roberta Gisotti lo ha chiesto a don Dieudonné Niyibizi, sacerdote burundese:

R. – La situazione è a rischio di una guerra civile. I ragazzi, infatti, che hanno manifestato durante questi otto mesi contro la candidatura del presidente al suo terzo mandato sono armati. In Burundi inoltre girano le armi sia fra gli Hutu che fra i Tutsi. Ci sono infatti gruppi armati sia dal Congo che dal Burundi. Allora, in questo caso, c’è il rischio di una guerra civile, ma non tra gli Hutu e i Tutsi, perché l’esercito è al 50 per cento Hutu e Tutsi e così le istituzioni e gli oppositori. Abbiamo quindi una situazione conflittuale non tra gli Hutu e i Tutsi, ma tra due gruppi politici. Un conflitto, quindi, politico con forse un sottofondo etnico, perché il nostro passato, la nostra storia recente, è una storia di opposizione tra Hutu e Tutsi. Oggi non così, ma in sottofondo, i sentimenti che abbiamo, i sentimenti dei burundesi, sono quelli delle vittime Hutu e Tutsi. Oggi, comunque, la questione è più politica.

D. – Siamo di fronte, quindi, ad un deficit di democrazia in questo caso…

R. – Sì, un deficit di democrazia, perché i partiti politici non funzionano correttamente. Gli oppositori, fuori del Paese, vogliono tornare e c’è anche il rischio che si armino. C’è la tendenza ad armarsi per ritornare nel Paese. Questa non sarà più una democrazia, ma un regime politico basato sulla forza, su chi è più forte. La democrazia in Burundi va salvata quindi con un dialogo tra i due gruppi: quelli che sono al potere e  quelli che sono ora all’opposizione, sia all’interno che all’esterno del Paese.

D. – Come vive oggi la popolazione del Burundi che, con tanta sofferenza alle spalle, aveva intrapreso una via di riconciliazione etnica? Questa riconciliazione era a buon punto?    

R. – La riconciliazione è già cominciata da 10 anni. Ci sono, però, ferite ancora sanguinanti. Questa guerra di cui si parla – perché viene annunciato che domani ci sarà una guerra – crea paura, stressa la gente che voleva tornare ad una vita normale. Capite che nel Burundi le popolazioni rurali, nelle province, sono tranquille, ma hanno bisogno della pace, hanno bisogno di poter mangiare e vivere. Il Burundi è uno dei Paesi più poveri del mondo, quindi la popolazione cerca la riconciliazione, di ritrovare la pace, di vivere, di mangiare, di trovare qualcosa da mangiare. La guerra quindi di cui si parla in Burundi è una cosa che tocca le ferite ancora sanguinanti di un Paese non ancora riconciliato.  

D. – Quale ruolo svolge la Chiesa cattolica?

R. – La Chiesa cattolica ha cercato di aiutare il governo durante questa crisi a trovare una via che riconcili i burundesi: in questi ultimi dieci anni ha cercato di riconciliare il Burundi organizzando un Sinodo per la riconciliazione. Questo ha messo in luce che i burundesi sono stanchi; i burundesi vogliono vivere in pace, vogliono riconciliarsi. Il contesto, in questo momento però, è quello di un ritorno al passato. Si perdono ora tutti i risultati raggiunti durante questo Sinodo. E la Chiesa continua ad accompagnare, a dare consigli al governo, perché dialoghi e arrivi alla pace, senza l’uso delle armi.

D. – E’ importante anche che ci sia correttezza nell’informazione sulla situazione critica che sta vivendo il Burundi, cioè di non paventare un genocidio, perché non si è a questo. Sarebbe comunque un altro tipo di conflitto…

R. – Adesso, in Burundi, ci sono più media privati che possono dare un’altra lettura della situazione. Ci sono tante notizie che girano soprattutto nelle reti sociali e anche nei media del governo. Bisogna, quindi, oggi, saper parlare - sia dal lato del governo che dal lato dell’opposizione - sapere cosa dire, perché parlando di genocidio ora c’è il rischio di una guerra civile, di uccisioni a larga scala. Un genocidio è qualcos’altro, deve essere organizzato, deve essere preparato, ma non è questo. Parlare, infatti, ancora di questo in Burundi, nei media, e fare paura alla gente o, ancora, creare allarme nella comunità internazionale, questo per me incentiva la guerra, crea disperazione: è chiamare la gente a difendersi, mentre in realtà non siamo ancora a questo.








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