2015-12-01 13:06:00

P. Lombardi: dall’Africa un insegnamento su come vivere il Giubileo


Una visita memorabile che ha dato coraggio e speranza al Continente africano. All’indomani del primo viaggio di Papa Francesco in Africa, Alessandro Gisotti ha chiesto al direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, di tracciare un bilancio della visita in Kenya, Uganda e Centrafrica:

R. – E’ vero, il Papa era perfettamente a suo agio e direi che anche gli africani erano perfettamente a loro agio nell’incontrare e nel ricevere il Papa. C’era un desiderio intensissimo da ambedue le parti che si sono incontrate. Il Papa parla sempre dell’incontro: è stato un bell’incontro, tra il Papa e l’Africa! Naturalmente l’Africa, per tutti noi e per la realtà del mondo di oggi, è un po’ una periferia dal punto di vista del potere nel mondo di oggi, e quindi il Papa ci teneva in modo particolare ad andare in Africa e anche in un Paese come il Centrafrica, che è tra i più disastrati dell’Africa di oggi, per dimostrare la sua attenzione a questo intero continente e ai Paesi che soffrono per diversi aspetti di povertà, di malattia, di emarginazione, di difficoltà a trovare la loro via per il futuro nella piena dignità della persona.

D. – In tutti e tre i Paesi visitati, il Papa spesso ha messo da parte il testo preparato e ha parlato a braccio, fino a dialogare con i presenti, soprattutto con i giovani. La risposta della gente è stata eccezionale …

R. – Sì, questo abbiamo capito oramai – dall’inizio del Pontificato – che è il suo modo di comunicare. Lui ama molto questo modo spontaneo, questo modo dialogico, questo modo coinvolgente, facendo anche rispondere e parlare le persone presenti in modo tale che si senta e si veda che sono parte attiva di un processo di dialogo e di impegno. Questo era già successo anche in Asia. Io ero rimasto colpito del fatto che proprio nei primi viaggi in Asia, in cui il Papa era quindi in una cultura estremamente diversa e con difficoltà di uso della lingua dei presenti, e quindi con la necessità di un traduttore, però questo modo di comunicare aveva funzionato perfettamente. Quindi, si vede che il carisma di comunicazione spontanea, di gesto e di espressione totale che il Papa ha, riesce a superare anche le differenze linguistiche. Questo, se ha funzionato in Asia, ha funzionato anche e perfettamente in Africa, dove evidentemente vedevamo anche la disponibilità dei giovani nel loro entusiasmo a essere coinvolti. Le occasioni classiche in cui il Papa preferisce la via del dialogo sono gli incontri con i giovani e anche gli incontri con il clero e i religiosi, cioè quando si trova di fronte a una audience con la quale si sente più spontaneamente portato a essere in dialogo.

D. – C’era grande attesa per l’apertura della Porta Santa della cattedrale di Bangui. Questo gesto rimarrà davvero tra le pietre miliari del Pontificato di Francesco …

R. – E’ vero. Qui credo che tutti abbiamo fatto una riflessione, e c’eravamo domandati che significato avesse questa apertura anticipata rispetto a quella annunciata da tanto tempo, dell’8 dicembre, che è l’ufficiale apertura dell’Anno della Misericordia nel mondo intero. E quindi, avevamo un po’ pensato: ecco, è un’eccezione per delle persone particolarmente in difficoltà, che poi hanno difficoltà a muoversi o a partecipare ai grandi eventi mondiali, quindi un atto di attenzione locale. Ma poi il Papa, prima dell’apertura della Porta Santa, ha detto: “Questa è la capitale spirituale del mondo, questa sera”, quindi lui stesso ha dato a questo gesto un significato tutt’altro che locale, ma veramente universale. In certo senso credo che dobbiamo dire: l’Anno della Misericordia, per chi ha seguito questo viaggio, abbiamo capito benissimo che per il Papa si apriva da lì. Allora, il Papa che va nelle periferie, che dice che l’attenzione dev’essere alla periferia della Chiesa, ai poveri, alle persone che soffrono e così via ha voluto aprire l’Anno della Misericordia in una situazione “di periferia” per dargli veramente il suo significato dell’amore di Dio che si manifesta anche con un’attenzione privilegiata per i poveri e per chi soffre. Questo non toglie nulla all’importanza della cerimonia dell’8 dicembre e alle aperture in tutte le altre parti del mondo, che sono evidentemente nella prospettiva di questo Anno della Misericordia che è universale, che è diffuso in tutto il mondo, perché? Perché la misericordia di Dio si può incontrare dappertutto. Però, l’inizio, il primo modo in cui il Papa ha voluto dare questo annuncio è stato lì. E vorrei aggiungere un’altra cosa. Dopo l’apertura della porta e l’inizio della Veglia, il Papa ha confessato cinque giovani. Era una Veglia difficile, questa, perché nella notta a Bangui, con tutti i problemi che ci sono non è che fosse facilissimo per i giovani venire e partecipare! Quindi, a chi guardava dall’esterno sembrava una Veglia a volte anche non di grandissime masse … Però, poi, al mattino, io parlavo con il vescovo e con altri sacerdoti ed erano entusiasti e contentissimi perché dicevano che le confessioni dei giovani sono state numerosissime, durante tutta la Veglia e la notte, dopo che il Papa aveva incominciato. Questo vuol dire che hanno capito perfettamente di che cosa si tratta. Quindi, l’Anno della Misericordia è andare a incontrare la Misericordia di Dio anche attraverso il Sacramento della Confessione, e questo i centrafricani, i giovani lo hanno capito benissimo. Mi sembra che sia un messaggio che dobbiamo recepire anche noi. Il Papa non solo ha aperto simbolicamente una porta, ma ha anche celebrato il Sacramento della Riconciliazione e tutti sono andati a godere di questa porta spirituale che è il Sacramento della Riconciliazione. Dovremmo imparare dai centrafricani che cos’è il Giubileo, pensando a tutte le discussioni che stiamo facendo anche qui a Roma, dal punto di vista logistico, economico, di sicurezza eccetera e dire: “Ah, abbiamo capito: è la Misericordia di Dio che si manifesta e dobbiamo andare a riceverla nei sacramenti e spiritualmente”.

D. – Ecco, rimaniamo proprio su questo. Prima del viaggio non è mancato chi sconsigliasse il Papa di andare in Centrafrica per motivi di sicurezza, appunto. Con la sua visita, Francesco ha dato una grande testimonianza di coraggio che darà anche speranza, coraggio alla popolazione centrafricana, vero?

R. – E’ verissimo. Credo che tutti coloro che si sono espressi, a partire dalla presidente di transizione, hanno manifestato la loro gratitudine al Papa per essere andato “comunque”, pur sapendo benissimo che c’erano stati tantissimi tentativi, anche molto forti, per sconsigliarlo ad andare, da parte di autorevoli forze del mondo di oggi. E il Papa è andato lo stesso, dimostrando una totale determinazione, non lasciandosi mai mettere in incertezza su questa cosa, e questo è stato un messaggio – una parte essenziale del messaggio – che il Papa ha portato: “Io vengo, vengo e voglio venire da voi proprio perché siete in difficoltà, e sono con voi per incoraggiarvi a trovare la via per il futuro”. Questo aspetto, quindi, anche del coraggio rispetto alla tematica della sicurezza, è un aspetto evidente di questa presenza nel Centrafrica. Mi permetterei di fare presente che in questo Papa Francesco si è messo in continuità con una tradizione anche dei suoi predecessori, perché chi ha un po’ di memoria ricorda bene che anche in diversi casi i suoi predecessori si erano trovati a decidere di andare pur in situazioni difficili, dimostrando un notevole coraggio e resistendo a pressioni contrarie. L’ultimo viaggio di Benedetto XVI, che è ancora abbastanza vicino nel tempo, quello in Libano – per chi si ricorda – è avvenuto in una situazione di Medio Oriente incendiato, di Nord del Libano in conflitto e con attentati. Quindi era anche una situazione in cui la decisione del Papa di andare era stata apprezzata come un grande atto di coraggio e un grande messaggio di pace. E chi ha una memoria ancora più lunga e ritorna a Giovanni Paolo II, sa che Giovanni Paolo II anche lui il coraggio certo non aveva bisogno che gli fosse insegnato, ed era andato anche lui in situazioni molto difficili. Chi conosce, si ricorda bene di Sarajevo, per esempio: era stato trovato poi dell’esplosivo sotto un ponte: non si è capito bene se era una scena o se era per un vero attentato, però di fatto c’era. Allora, anche il viaggio a Sarajevo, per chi c’era, ci si ricorda che era abbastanza problematico dal punto di vista della sicurezza. E chi ha memoria ancora più lunga mi parla del Nicaragua del 1983, in cui c’era una situazione di tensione interna ed esterna nel Paese evidentissima, che infatti si è manifestata molto anche durante il viaggio; e quando è andato in Perù, al tempo in cui imperversava “Sendero Luminoso”, ci sono stati anche degli attentati in giro per il Paese. Quindi, il fatto che i Papi vadano, vadano dove c’è bisogno, dove c’è attesa, dove c’è anche un certo rischio ma proprio perché il messaggio porta in sé la necessità di un impegno, di un coraggio, altrimenti il messaggio … mica si va a fare turismo, insomma: si va perché c’è bisogno e questo ha anche un prezzo!

…Mi permetto di aggiungere – perché questo è stato un aspetto su cui sono stato anche interrogato infinite volte nei giorni passati – un altro piccolo episodio che mi ha toccato: durante le settimane precedenti, tra i vari tentativi – anche ben intenzionati – di dissuadere o di fare presenti le difficoltà e i rischi, avevo ricevuto anche io una persona, che aveva parlato naturalmente anche con persone più autorevoli di me, e che mi faceva presente le difficoltà e i rischi in particolare nella visita al quartiere musulmano e alla moschea. Lo diceva rispettosamente, ma lo diceva anche con convinzione. Ebbene, io questa persona la ho incontrata nella Moschea, è una persona autorevole, come molte altre nella moschea, che faceva salti di gioia, era assolutamente entusiasta e diceva: “Siete formidabili! Siete bravissimi! Il Papa ha fatto esattamente quello che bisognava fare… Siamo tutti estremamente grati!”. Quindi egli stesso, che era stato in qualche modo un po’ attore di questa preoccupazione, si rendeva conto che la determinazione del Papa di andare e di andare anche nella moschea aveva un significato che era preziosissimo per tutti e in particolare per la comunità musulmana di Bangui e del Centrafricana.

D. – Oggi è la Giornata mondiale della lotta contro l’Aids. Anche questo è stato un tema fortemente presente nel viaggio di Francesco, in particolare in Uganda…

R. – Sì. L’Uganda è un Paese che con l’Aids ha molto a che fare: il primo caso documentato di Aids è stato in Uganda nell’82; poi la diffusione dell’epidemia è stata grandissima e c’è stato poi un grande impegno da parte sia delle autorità locali, sia anche della Chiesa in Uganda, per contrastare l’epidemia, anche con notevoli risultati dobbiamo dire - per fortuna! – di contenimento e di riduzione del dilagare dell’epidemia. Il tema era evidentemente presente: abbiamo sentito la ragazza nella testimonianza dell’incontro dei giovani e cosa voglia dire vivere con l’Aids. Una testimonianza veramente molto impressionante. Il Papa ha anche incontrato i responsabili di queste attività, per esempio, per i bambini malati di Aids del “Progetto Dream”; ha nominato il problema dell’Aids nella visita anche alla Casa della Carità di Nalukolongo. Quindi era ben consapevole di questo. Nella conferenza stampa del viaggio di ritorno c’è stata una domanda su questo e che qualcuno ha interpretato male, come se il Papa avesse sottovaluto la questione: il Papa ha voluto, invece, inserirla in un contesto molto più ampio e generale di tutte le responsabilità che l’umanità e i popoli hanno per creare giustizia, sviluppo ed evidentemente anche per contrastare quelle che sono le condizioni di povertà e di mancanza di salute che ci sono in giro. Ha considerato che la domanda, rivolta specificatamente solo sull’uso del condom fosse troppo restrittiva e quindi portasse ad equivocare la problematica. Ma noi possiamo dire ed è bene ricordate - come hai detto bene - in questa Giornata della lotta contro l’Aids a livello mondiale che la Chiesa è in prima linea, in Uganda in particolare, ma anche in altri Paesi dell’Africa, con una quantità di iniziative che è molto ampia: combattere l’Aids vuol dire naturalmente fare una attività di prevenzione e tutti gli esperti sanno che nell’attività di prevenzione il fatto del ridurre le attività sconsiderate di rapporti sessuali promiscui o molteplici e irresponsabili è l’aspetto principale e più efficace: “abstinence” e “be faithfull” sono le prime parole importanti per combattere efficacemente l’Aids ed esattamente tutto l’aspetto educativo che la Chiesa fa in questo senso è di primaria importanza. Poi c’è tutto l’aspetto della cura, perché una cosa è dire “Bene, mettete il condom e non prendete l’Aids”… Ma poi quando tutti quelli che l’hanno – e che sono tanti! – chi li cura? C’è tutta l’attività di curare con l’uso dei farmaci antiretrovirali, del seguire veramente gli ammalati e lo stare loro vicino; occuparsi delle mamme e dei bambini, delle mamme che sono rimaste vedove… E’ tutto un campo in cui la presenza della Chiesa – in Uganda in particolare, ma poi dappertutto – è estremamente importante. Quindi credo che sia giusto ricordare l’impegno della Chiesa in questo campo e capire che non bisogna avere una visione molto ristretta di un problema, su cui poi il Papa ha anche manifestato l’attenzione ad una valutazione poi specifica di casi che ci possono essere, quando ha parlato della problematica del quinto e del sesto Comandamento. L’attenzione al problema in sè e l’impegno della Chiesa in Africa nel campo dell’Aids è vastissimo, è enorme, ma – come dicevo, vorrei ritornarci – l’aspetto educativo dell’invito all’insistenza sul comportamento responsabile nella vita matrimoniale e nella vita di coppia e nell’evitare un uso irresponsabile illimitato della sessualità è assolutamente il punto importante, anche per la prevenzione. Tra l’altro, ricordando questo giorno, oggi è anche per gli africani in particolare il giorno della Festa della Beata Anuarite Nengapeta: una suora che è stata uccisa nel 1964 proprio per aver resistito alle richieste di rapporti sessuali dei leader ribelli del Congo. Quindi è una martire della fedeltà alla castità, al suo impegno e molti in Africa la considerano la protettrice dell’impegno dei cristiani e della Chiesa nella lotta contro l’Aids. Una persona che ha vissuto per il servizio e che è morta proprio per la fedeltà al suo impegno in questo campo, che è così drammatico anche per la problematica dell’Aids.

D. – Da ultimo, padre, cercando di legare le visite nei tre Paesi – Kenya, Uganda, Centrafrica – qual è, secondo lei, il messaggio più forte che Francesco ha lasciato per la Chiesa, ma ovviamente per tutto il continente africano e non solo per i tre Paesi visitati?

R. – Io sarei molto sintetico nel rispondere a questa domanda. Quello che ci ha colpito a tutti, girando per l’Africa, è la gioventù. La grande maggioranza di tutti coloro che erano presenti anche ad acclamare il Papa, anche lungo le strade in particolare, erano bambini o ragazzi giovani. La grande maggioranza della popolazione è giovanissima e quindi capiamo perché anche i demografi dicono che nel giro di relativamente pochi decenni la popolazione dell’Africa si sarà sviluppata in miliardi di persone e sarà quindi un continente di una importanza anche nella popolazione mondiale enorme. Il Papa è presente, la Chiesa è presente; è presente per questi bambini, è presente per questi giovani, è presente per il futuro di questo popolo, è presente con cordialità. La Chiesa c’è ed accompagna ed è un segno di riferimento, di speranza, di fiducia per un futuro migliore di un continente che ha uno sviluppo incredibile: vogliamo o non vogliamo, buono o cattivo, questo lo si dovrà vedere, lo si dovrà costruire nella responsabilità… Vedendo gli episcopati che si incontravano con il Papa, io ero colpito dal fatto che alcuni dei più anziani sono i vescovi missionari europei, mentre la grande maggioranza, la quasi totalità sono invece vescovi africani, del posto. Quindi la Chiesa è cresciuta in Africa, ha messo le sue radici, è presente, è corresponsabile dello sviluppo di questi popoli. La Chiesa è africana con gli africani e accompagna questo continente nei suoi problemi e nelle sue speranze. Il Centrafrica è stato un po’ la situazione più drammatica che si è vissuta, per cui il Papa si è impegnato di più a portare speranza e orientamenti positivi per il futuro. Altri Paesi sono già – diciamo – un po’ più avanti, un po’ più sistemati, come il Kenya e l’Uganda, ma la Chiesa c’è per tutti! Cammina con tutti ed è una Chiesa africana, con un Papa universale, che si sente africano con gli africani e che è riuscito infatti a dialogare e ad essere sentito come un padre da tutti i cristiani e da tutti gli uomini di buona volontà che si trovavano lì. Tutti! Per concludere con una immagine che mi ha molto colpito: il Papa che girava con la papamobile insieme all’imam è stato un messaggio fortissimo. Il Papa che ha incontrato e reincontrato la piattaforma per il dialogo interreligioso, composta dall’arcivescovo, dal presidente delle comunità evangeliche e dall’imam è un messaggio fortissimo. Ecco, il futuro dell’Africa. La Chiesa dà il suo contributo, non pensa certo di farla da sola. Lo fa con gli altri, per il dialogo, per la pace, con l’aiuto di tutte le persone di buona volontà e in particolare dei credenti.








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