2015-08-06 19:06:00

Barcone affondato, continuano ricerche. Msf: Triton insufficiente


E’ arrivata nel porto di Palermo la nave militare irlandese con a bordo le salme delle vittime del naufragio di ieri, avvenuto al largo delle coste libiche. Poco meno di 400 i naufraghi tratti in salvo, 25 i corpi recuperati, ma i morti si teme siano molti di più. La Procura di Palermo ha aperto un’inchiesta per stabilire le cause della disgrazia, cinque le persone arrestate appena sbarcate in Italia. Francesca Sabatinelli

Le ricerche proseguono, perché le drammatiche testimonianze dei 373 sopravvissuti raccontano di circa 600 persone a bordo del peschereccio affondato ieri. Sarebbero quindi oltre 200 i dispersi dell’ennesima sciagura, che coinvolge siriani, sudanesi, palestinesi, bengalesi, eritrei, e purtroppo anche bambini, 13 i minori tra i superstiti, tre tra le vittime ritrovate, e non si riesce neanche a immaginare il numero di coloro che sono dispersi. La dinamica del naufragio è un copione già conosciuto: l’avvistamento della nave irlandese del dispositivo europeo Triton, la Le Niamh, ha portato i migranti a spostarsi tutti su un lato dello scafo che si è inevitabilmente ribaltato.

Gli arresti effettuati oggi riguarderebbero i presunti scafisti, cinque nordafricani, tra algerini e libici.  Secondo le testimonianze avevano richiuso centinaia di persone nella stiva sigillandone i portelli per impedire l’uscita in coperta. Mossa che ha segnato la morte dei profughi. Sarà ora la procura a valutare la loro posizione. Oggi intanto sono stati 1.200 i migranti soccorsi in diverse operazioni al largo della Libia, oltre 400 sono stati tratti in salvo mentre il loro barcone affondava,  mentre in cento a bordo di un gommone sono stati salvati dalla nave di ricerca dei dispersi del naufragio di ieri. Si ripetono quindi gli appelli da parte delle organizzazioni internazionali, urgono percorsi sicuri verso l’Europa è la richiesta di tutti coloro che sollecitano i governi europei a fare di più per mettere fine a una tale ecatombe.                                            

Sul luogo scene di orrore e disperazione racconta Juan Matías Gil, coordinatore della nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere Dignity I, intervenuta quasi subito. L'intervista è di Paolo Ondarza:

R. – Quando siamo arrivati, noi non siamo stati i primi: la nave militare irlandese e la nave italiana erano già in posizione e coordinavano le operazioni. Abbiamo prima di tutto distribuito un salvagente a tutte le persone che erano ancora in acqua.

D. – Quanta gente c’era in acqua?

R. – Quando siamo arrivati non tante, perché era passata già qualche ora… C’era qualche decina di persone.

D. – In quale stato avete trovato queste persone?

R. – Erano veramente disperate! Appena ci vedevano, gridavano e ci chiamavano… Ci dicevano che c’erano ancora persone un po’ più lontano. Ci davano consigli, istruzioni, direzioni… Ma veramente scioccati!

D. – Molti gli uomini, ma anche donne e bambini?

R. – La maggior parte erano adulti uomini, ma c’erano anche abbastanza bambini. E’ difficile precisare quanti fossero…

D. – Prevalentemente di nazionalità africana?

R. – Quelli che noi abbiamo recuperato erano maggiormente arabi. Ma queste barche normalmente hanno due piani: gli africani vanno sotto, perché si paga di meno e quando dico africani intendo sub-sahariani; gli arabi normalmente pagano di più e quindi sono sul piano superiore. Sicuramente dentro la barca sono rimasti tanti, tanti africani sub-sahariani.

D. – Prevalentemente gli africani chiusi nella stiva?

R. – Non è una scelta, è una questione di soldi! Hanno quei soldi e pagano quello che possono…

D. – In mezzo a questa tragedia avete soccorso una bambina di un anno…

R. – Di meno di un anno. Una piccola bambina che era caduta in acqua e stava andando sotto l’acqua: il papà l’ha vista e ce l’ha indicata… Tutti e tre, padre, madre e bimba, stanno bene: la donna aveva però bisogno subito di un’attenzione medica e quindi la abbiamo subito portata sulla nostra barca e dopo la sua stabilizzazione è partita in elicottero verso l’Italia.

D. – Quante sono le persone che avete messo a bordo per il trasporto verso Palermo?

R. – Tutte le persone che abbiamo portato sulla nostra barca sono state trasferite nella nave irlandese. Quindi la cifra ufficiale possono darla loro.

D. – Ricordiamo che il vostro è un intervento di natura – potremmo dire – “privata”, rispetto a quello costituito dal dispositivo europeo “Triton”…

R. – Effettivamente, effettivamente. La nostra è una operazione indipendente. Dopo la tragedia di aprile, con questa crisi umanitaria alle porte di Europa, non potevamo certo fare finta che non accadesse niente! Quindi abbiamo deciso di intervenire: siamo fuori – e questo deve essere veramente molto chiaro! – da tutta l’operazione ufficiale europea.

D. – Quale valutazione si sente di fare rispetto a quanto sta accadendo nel Mediterraneo?

R. – Evidentemente se noi siamo qui vuol dire che tutte le risorse che hanno messo per questa operazione “Triton” non sono bastate per coprire i bisogni! E non soltanto riguardo alla quantità, ma anche riguardo alla capacità dell’azione, alla capacità dell’esperienza del salvataggio e alla capacità medica sulle barche: quelle di Triton sono tutte barche militari e fanno quello che possono… Ma questo non basta! Non è abbastanza, purtroppo!

D. – Secondo lei, che cosa dovrebbe essere fatto concretamente?

R. – Sicuramente aumentare le risorse, le risorse per i salvataggi e non secondo una prospettiva militare, ma umanitaria. Non solo controllare i confini, le frontiere, ma cercare di comprendere quale sia il problema e perché tutte queste persone sono a rischio, perché arrivano a prendere la decisione di attraversare il mare con tutto il rischio che questo comporta… Dobbiamo fare un’analisi veramente molto ampia e prendere delle misure concrete, orientando questa operazione non da un punto di vista militare, ma umanitario!

 








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