2015-08-05 14:12:00

Utero in affitto, commercio in crescita: donne povere alla mercé dei ricchi


Si chiama “utero in affitto”, ma alcuni preferiscono definirla “maternità surrogata” o “assistita” con un termine che ne attenua l’essenza di compravendita su cui si basa. Un fenomeno in crescita contro cui è stata già avviata una raccolta internazionale di firme finalizzata a chiedere all’Onu una moratoria. Il servizio di Gabriella Ceraso:

Compravendita di esseri umani e schiavizzazione del ruolo della donna in termini di maternità. E’ quanto si cela dietro la pratica dell’utero in affitto, un contratto con una donna che porta in grembo un bambino per poi venderlo al momento del parto. Una pratica legale in India, Cina, Bangladesh, Thailandia, Russia, Ucraina, Grecia, Spagna, Regno Unito, Canada e in otto Stati americani. Risollevata in questi giorni da un settimanale italiano, la questione è aperta e dai confini poco quantificabili, perché molti bambini non sono registrati all’anagrafe - solo di recente la Francia ha ammesso la procedura - e nessuno sa quanti se ne "producano" ogni anno nel mondo.

Innumerevoli i siti d’informazione e i portali delle cliniche che lo pubblicizzano come un prodotto perfetto, con un’assistenza completa per tutta la durata del cosiddetto “programma”. Fecondazione in vitro, impianto, parto. Chiari anche i rischi non solo legali ma anche di salute che comporta e che arrivano fino alla morte della donna e alla malformazione del feto. Capitolo a parte i costi, che ne fanno un vero business da 12-20mila euro in India, a 40mila in Ucraina, ai 100mila nei costosi Stati Uniti. Le fabbriche di maternità sono nei Paesi poveri e gli acquirenti in quelli ricchi.

Può succedere così che ovuli polacchi o ucraini, uniti a sperma americano o svedese, diano embrioni congelati in India, impiantati in uteri bengalesi in una clinica del Nepal. Dopo che la Thailandia ha chiuso agli stranieri, infatti, India e Nepal sono i mercati più umilianti, dove le mamme surrogate per nove mesi sono costrette a vivere in case comuni, controllate per non intaccare "il prodotto" con stili di vita o alimentazione errati, pronte comunque anche ad abortire in caso sia richiesto dal committente. Una forma di sfruttamento intollerabile anche per Paesi come Stati Uniti e Canada che hanno regolamentato questa pratica e la travestono come una scelta libera per le donne.








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