E’ stata confermata, ieri, la nomina di Akhtar Mansour alla guida del movimento dei talebani, dopo che, nei giorni scorsi, era stata diffusa la notizia del decesso del mullah Omar, fondatore e storico leader del gruppo fondamentalista afghano. Descritto come un negoziatore, Mansour potrebbe svolgere un ruolo importante nei colloqui di pace, appena iniziati, fra i talebani e il governo di Kabul. Giuliano Battiston, giornalista esperto di Afghanistan, racconta le ultime evoluzioni di una situazione tragica e complessa al microfono di Giacomo Zandonini:
R. - Akhtar Mansour è stato per anni il numero due del movimento ed ha guidato, al posto del Mullah Omar, che per molto tempo è stato evanescente, il Consiglio della Leadership, cioè il massimo organo di rappresentanza politica dei Talebani. Negli anni '80 ha combattuto – sembra – proprio al fianco del Mullah Omar nel "jihad" contro i sovietici. Mansour è sicuramente un pragmatico all’interno della galassia talebana, incline al negoziato politico: fa parte della vecchia guardia dei “Turbanti neri”, quelli che hanno fondato il movimento e che sanno che è arrivato il momento di tessere un negoziato di pace con il governo di Kabul. Quindi, la sua nomina potrebbe far ben sperare per il futuro del Paese e del conflitto afghano. Il guaio è che oltre a lui sono stati nominati due vice: uno di questi è Sirajuddin Haqqani, il figlio del fondatore del Gruppo Haqqani, che tra i movimenti anti-governativi in Afghanistan è quello più spietato, quello a cui si attribuiscono gli attentati più clamorosi in Afghanistan.
D. – Per quanto riguarda invece il ruolo del sedicente Stato Islamico, che cosa c’è in gioco?
R. – Lo Stato Islamico sta cercando di conquistare terreno e uomini all’interno dell’Afghanistan e ai talebani questo non piace, perché ci sono differenze dottrinarie e ideologiche, e anche pratiche. Mullah Mansour, l’attuale numero uno dei Talebani, proprio qualche settimana fa ha scritto una lettera di suo pugno, resa pubblica e destinata al califfo al-Baghdadi in cui diceva: “Mettete giù le mani dal nostro Paese, il jihad qui è nostro, non va aperto un nuovo fronte”. Il rischio però è che con la mancanza di una leadership riconosciuta, e che teneva insieme le diverse anime dei “Turbanti neri”, si possano approfondire le spaccature esistenti all’interno del movimento e potrebbe giovarne proprio lo Stato Islamico.
D. – Qual è il sentore dei cittadini afghani rispetto a una situazione di conflitto protratta nel tempo?
R. – Credo ci siano due sentimenti prevalenti: il primo è la speranza che questi negoziati di pace finalmente portino a qualcosa di definitivo, e mettano fine a una guerra che dura da moltissimi anni. Il secondo però è un certo sospetto, piuttosto diffuso, riguardo ai talebani, che si sono macchiati di crimini orrendi e che quando hanno governato il Paese l’hanno fatto andando contro i sentimenti della maggioranza della popolazione. Quindi c’è speranza per un futuro accordo di pace, ma c’è anche sospetto e attenzione verso le concessioni che verranno fatte ai talebani durante i negoziati di pace.
D. – Ci sono anche attori regionali e attori interni, che avranno un peso importantissimo…
R. – Gli attori regionali sembrano aver cambiato un po’ la propria politica: il Pakistan, che è sempre stato accusato di sostenere gli islamisti armati, sembra aver capito che la minaccia talebana rischia di affondare anche il proprio Paese e sembra determinato a favorire il processo di pace, però siamo ancora in alto mare e si vedrà tutto nei prossimi mesi.
All the contents on this site are copyrighted ©. |