2015-05-17 15:52:00

Gaza, diario di un fotoreporter: la vita continua tra le macerie


Un diario di viaggio scritto dalla Striscia di Gaza che si intitola: "Befilmaker a Gaza". Un racconto quotidiano tra lavoro e passione. 22 racconti, 26 fotografie che catturano nonostante tutto la bellezza nello sguardo di un popolo martoriato da occupazione, sangue e macerie. Federica Baioni ha intervistato l’autore del libro Valerio Nicolosi fotoreporter e responsabile dell’Associazione Videomaker Italiani:

R. – Ogni sera scrivevo un piccolo diario e allegavo qualche foto, raccontando così quello che vivevo quotidianamente da videomaker indipendente che viveva una realtà particolare, non solo fatti di guerra e di distruzione, ma una realtà anche molto umana. Cercavo di raccontare questo, cercavo di raccontare l’università nella quale sono stato per insegnare fotografia come volontario in un progetto di formazione. Ho cercato di raccontare i ragazzi e le ragazze di Gaza, la vita dell’università e dei viali di Gaza, trafficati, belli e rumorosi come in una qualsiasi città araba… Da qui è nata l’idea di farne un libro.

D. – Quello che tu hai scritto – testo e foto – ci accompagna in una narrazione  che nasce – e lo hai detto prima – come un diario. Ma il fulcro del libro e il tuo obiettivo è la riflessione sul concetto di bellezza. Perché il concetto di bellezza è presente nel tuo libro?

R. – Perché sono entrato a Gaza da operatore dell’informazione, da persona interessata alla questione palestinese, pensando che fosse solamente guerra e distruzione. In realtà, poi, ho trovato una città viva, ho trovato un porto vivissimo, pieno di pescatori che, nonostante ogni notte vengano colpiti dal fuoco israeliano, dalle motovedette israeliane che sono schierate a sei miglia dalla costa, escono a pescare: nonostante tutto ogni sera escono, lavorano…. Di notte io sentivo le cannonate, gli spari delle mitragliatrici e loro sono là. La mattina, poi, al porto vendono il pesce, come se niente fosse… Per me questo è un elemento di bellezza, un segno di resistenza di un popolo che, nonostante l’occupazione continua a vivere “quasi” normalmente: il quasi è ovviamente perché vivi sotto occupazione. Però è veramente un bel segno! Un giorno ero a sud, verso Kha Yunis, la seconda città della Striscia: ero in un quartiere completamente raso al suolo, vicino al confine, vicino al muro. Un signore era seduto davanti alla sua ex-casa – perché era completamente rasa al suolo, era rimasto solo qualche muro e una piccola scaletta che portava al piano superiore, completamente inagibile, che mi ha detto: “Vieni su con me, ma stai attento!... Fai una foto da qui, perché si vede tutto il quartiere. Questa è la mia casa, io la ricostruirò qui… Da qui vedi anche Israele e al di là del muro vedi solo alberi, vedi verde,  mentre qui  vedi solo grigio e macerie…”. Siamo andati su questo pseudo tetto che è rimasto della casa: lui si è messo in posa, con grande orgoglio. Questa foto è anche nel libro, ci tenevo particolarmente… Lui,  testa alta e petto in fuori, ha detto: “Sì, questa è la mia casa! Se vuoi fotografa anche qua… Ci sono tutte macerie, ma noi continuiamo a resistere!”.

D. – Eri in una terra straniera, ti sei sentito accolto?

R. – Assolutamente sì! Mi sono sentito a casa. Sono rimasto 25 giorni, il progetto di formazione era di una settimana all’università… Io ho scelto di restare ancora un po’ per conoscere quella terra e mi sono sentito a casa. Mi hanno accolto in ogni casa, anche quanto le case non c’erano più; mi hanno offerto il tè e il tè te lo offrono veramente ovunque… E mi ringraziavano, perché gli occidentali e gli stranieri presenti sono pochi: anche per chi va a fare il volontario è difficilissimo entrare a Gaza. Mi hanno sempre accolto con grande affetto! Dopo questi 25 giorni ero veramente dispiaciuto di andare via ed ora non vedo l’ora di poter tornare. Mi sono sentito veramente a casa. 








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