2015-05-13 14:55:00

Approvata l'Agenda sull'immigrazione: l'Italia non più sola


Via libera della Commissione europea all’Agenda per l’immigrazione, il piano per affrontare l’aumento dei flussi, che stabilisce un sistema di quote obbligatorio per la redistribuzione dei richiedenti asilo fra i Paesi dell’Unione. In Italia arriverà il 9,94% dei 20 mila profughi che risiedono in campi profughi all'estero e che hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiati, e l'11,84% dei richiedenti asilo già presenti in Europa, o che entreranno direttamente in territorio europeo. “E’ una giornata storica per l’Italia”, questo il commento del capo della diplomazia dell’Unione Europea, Federica Mogherini, per la quale ora la responsabilità dell’accoglienza, finora quasi unicamente italiana, diventa europea.Passi avanti anche se incerti. E’ il giudizio di mons. Gian Carlo Perego, direttoregenerale della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, sul piano immigrazione europeo. Per mons. Perego è positivo che si sia rimesso al centro della discussione le persone e non il controllo delle frontiere ma resta “l’incertezza sul meccanismo di suddivisione dei richiedenti asilo. Oggi - ricorda - su 185 mila persone protette nel 2014, circa 122 mila hanno ricevuto forme di tutela da quattro dei 28 stati europei cioè Germania, Svezia, Francia e Italia”. 

Francesca Sabatinelli ha intervistato Edoardo Greppi docente di Diritto dell'Unione Europea e di Organizzazione internazionale all’Università di Torino:

R. - Se questa agenda, approvata nei termini che vedremo, cominciasse davvero a prendere atto del fatto che l’immigrazione è un problema dell’Unione e non di uno Stato membro, allora questo sarebbe già un grosso passo avanti.

D. - Il fatto che sia un problema, diciamo così, per tutta l’Unione lo dimostrano le quote di redistribuzione che in qualche modo riconoscono all’Italia, e non solo anche a  Malta, Grecia, Spagna, il fatto di essere Paesi in prima linea. Questo quindi mette in discussione il trattato di Dublino che prevedeva il dover rimanere dei richiedenti asilo nei Paesi di arrivo?

R. – Il regolamento di Dublino è sempre stato giustamente criticato di questi tempi, perché offre una rappresentazione della realtà che non è più adeguata o che almeno non lo è adeguata in un’ottica di condivisione della responsabilità. Se è vera la premessa che tutti quanti conosciamo, e cioè che queste migliaia di persone non guardano all’Italia come punto di arrivo definitivo, il dire: “Si approda in Italia, quindi è un problema italiano”, pare a tutti quanti, e apparentemente adesso anche alla commissione europea nella sua interezza e in primo luogo nel suo presidente, un po’ una sottovalutazione della reale portata del problema. Quindi, se questo davvero portasse a una modifica dell’impianto normativo, bene! Ben venga.

D. - Uno degli altri punti dell’Agenda europea sull’immigrazione riguarda la missione di sicurezza e difesa contro trafficanti e scafisti, che dipenderà però dai tempi dell’approvazione della risoluzione che verrà dibattuta alle Nazioni Unite. Non saranno azioni di guerra, questo è ciò che è stato ripetuto …

R.  – E’ chiaro che qui siamo di fronte a una delle colonne portanti dell’ordinamento internazionale, cioè la comunità internazionale, il diritto internazionale, riconosce ancora il tradizionale principio di sovranità dello Stato come punto di riferimento normativo essenziale. E’ chiaro, quindi, che non si possono realizzare operazioni che implichino l’uso della forza senza il consenso dello Stato territoriale, dello Stato “sovrano”. Il problema ovviamente è che la Libia non è uno Stato sovrano, lo Stato è “sovrano”, essenzialmente, in quanto controlla effettivamente il territorio, esercita i propri poteri sovrani sulla popolazione del territorio, ecc. E in Libia abbiamo almeno due governi, entrambi che avanzano pretese di rappresentatività del tutto, quello di Tobruk, e quello di Tripoli, in più abbiamo tutta una serie di altre entità para-sovrane, attori non statali, che in qualche misura controllano diverse porzioni del territorio. Allora, in questi casi, l’ordinamento delle Nazioni Unite prevede che la comunità internazionale, rappresentata in questo caso dal Consiglio di sicurezza, possa anche decidere azioni implicanti l’uso della forza, con ciò passando sopra l’asserita sovranità statale. Se il Consiglio di sicurezza decidesse in questo senso, evidentemente ci sarebbero tutti i presupposti perché un certo numero di Stati, e si ipotizza a comando integrato italiano, esercitasse questi poteri sul territorio libico e nelle acque. E’ chiaro che nelle scorse settimane e mesi, secondo me, si è un po’ in modo leggero girato intorno a idee come quella del blocco navale: il blocco navale è un’azione di guerra. Vorrei vedere francamente chi con serenità nell’ordinamento internazionale oggi si sentirebbe di dire: “Spariamo sui barconi”. Se così fosse io personalmente riterrei di dovermi dissociare dalla legittimità di un’operazione di questo genere. Non sono in grado io di valutare la praticabilità di misure coercitive di questo genere. Noi abbiamo specialisti nelle nostre forze armate, e nelle forze armate degli altri Paesi potenzialmente interessati, che sono in grado di dire quello che sarebbe praticabile e quello che invece sarebbe troppo rischioso per questa povera gente che fugge tragedie epocali e che ha diritto al rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani fondamentali. Qualcuno giustamente è più prudente e più attento a dire: va bene, se diamo il via libera all’uso della forza, attenzione a come lo configuriamo questo uso della forza. Cioè, cosa vuol dire impedire ai barconi di partire? Cosa vuol dire distruggere o disarticolare il sistema che porta i barconi ad attraversare il Mediterraneo? Quali mezzi si possono adoperare? In che misura la forza militare potrà essere ritenuta adeguata e per ottenere quale risultato specifico? A che distanza dalle coste? Sono tutti elementi tecnici che però non sono irrilevanti nella presa di una decisione politica e giuridica.








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