2015-05-10 12:54:00

Sud Sudan: una giornata di preghiera per promuovere la pace


Giornata di preghiera per la pace in Sud Sudan, promossa dal Consiglio Mondiale delle Chiese. Secondo l’Onu, 100 mila persone sono in fuga dal Sud Sudan per la sanguinosa guerra civile che vede contrapporsi le forze governative e i ribelli legati all’ex vice presidente Riek Machar. Eugenio Murrali ha intervistato padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista comboniana Nigrizia:

R. – Questo Paese sta affrontando il 17.mo mese di guerra civile, che si è scatenata nel dicembre del 2013. Finora non si vede un esito a questa guerra intestina, che ha causato – dicono – la morte di circa 50 mila persone e 2 milioni di sfollati interni.

D. – La giornata di preghiera è anche un modo per cercare di riaprire il dialogo interno?

R. – Senz’altro. Direi che le chiese e gli esponenti religiosi di varie provenienze sono probabilmente l’unica istituzione credibile, a questo punto, che possa aiutare la gente a superare le divisioni interne, etniche e religiose. La popolazione è ormai sfibrata da questa guerra civile. Quello che preoccupa è che continua questa paura tra la gente: c’è un clima di insicurezza diffuso e questo radicamento della cultura della vendetta. Questa giornata di preghiera si inserisce nell’ambito di un programma più importante, portato avanti dal Comitato nazionale per la guarigione, la pace e la riconciliazione in Sud Sudan. Hanno già organizzato dei seminari e le prime 70 persone sono state formate con un corso di sei mesi per diventare, loro stessi, formatori di circa 500 ambasciatori di pace, che dovranno portare avanti questo processo di riconciliazione nel Paese.

D. – Lo scontro fra opposte fazioni, in atto dal 2013, che ferite sta producendo sulla popolazione civile?

R. – Delle ferite non soltanto fisiche… Pensiamo ai tanti villaggi e anche alle cittadine che sono state praticamente rase al suolo: chi è sopravvissuto è stato costretto a lasciare tutto e a vivere in aperta campagna o a trovare rifugio nelle sedi dell’Onu, nelle missioni cattoliche, nelle missioni delle varie chiese. Quindi non soltanto hanno subito queste violenze fisiche, ma direi che ci sono dei traumi psicologici molto forti, perché questa guerra civile, nata da una lotta per il potere tra Salva Kiir, l’attuale presidente, e l’ex vice presidente Riek Machar, si è poi trasformata in una guerra etnica: i gruppi, soprattutto i principali, Nuer e Dinka, si sono poi affrontati con azioni di rappresaglia, di vendette.

D. – La crisi umanitaria continua: il segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese, Olav Tveit, parla di “dolore insostenibile” per i sud sudanesi. Cosa sta facendo di concreto la Comunità internazionale?

R. – La Comunità internazionale ha fatto alcuni passi, ma forse dovrebbe essere ancora più forte la sua insistenza nei confronti di chi ha in mano le chiavi del Paese, quindi i principali oppositori: dovrebbe, per esempio, imporre delle sanzioni personali sui loro beni e possedimenti o impedire l’accesso da parte loro all’acquisizione di armi. Direi che, in questo senso, ci dovrebbe essere una maggiore serietà. E poi la Regione, l’Igad, e cioè gli Stati confinanti, dovrebbero continuare in questo senso, costringendo i leader contrapposti a deporre le armi e a fare veramente sul serio: non soltanto firmando degli accordi proforma per poi tornare alle armi, ma impegnandosi sinceramente per porre fine a questa insostenibile sofferenza del popolo sudanese e sud sudanese che – sappiamo bene – è uscito nel 2005 da oltre 20 anni di guerra civile, preceduti da altri 25 anni di guerra civile precedente. Quindi hanno una lunghissima storia di violenza e sopraffazione. E questo deve assolutamente finire.








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