2015-04-08 14:59:00

Rwanda, Parigi apre archivi. Costa: l'orrore non si dimentica


A 21 anni dal genocidio in Rwanda, dal milione di morti in cento giorni, la Francia ha tolto il segreto di Stato ai documenti conservati negli archivi dell'Eliseo e che riguardano gli anni tra il '90 e il '95. Kigali da sempre accusa Parigi di aver avuto un ruolo nel massacro con l’operazione militare "Turchese", condotta dalle forze francesi sotto mandato Onu per mettere fine alle violenze in atto, ma che risultò essere incapace di mettere un freno ai massacri. Pierantonio Costa, imprenditore di successo, allora era console italiano in Rwanda, è definito lo "Schindler italiano" per aver salvato circa duemila persone, utilizzando le proprie conoscenze e il proprio denaro. Candidato nel 2010 al Premio Nobel per la pace, gli è stato dedicato un alberello nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova. Francesca Sabatinelli gli ha chiesto cosa significhi questa decisione nei rapporti fra i due Paesi:

R. – È certamente una decisione che potrà apportare un incontro più facile fra loro però, finché tutto non sarà accessibile, rimarrà sempre una ragione per non credere all’onestà di quanto detto dai francesi.

D. – Lei è stato testimone, lei ha salvato molte vite: quali sono le ombre sul comportamento della Francia?

R. – La Francia ha sostenuto il governo Habyarimana, l’ha sostenuto prima e durante quella guerra. Non l’ha mai detto, ha sempre evitato di sollevare la questione, però l’intervento che ha fatto nel mese di giugno, l’”Operazione Turchese”, è stato coperto da uno scopo umanitario, ma aveva in sottofondo, o in fondo, lo scopo di interporsi tra le due fazioni e portarle eventualmente a una discussione.

D. – Secondo lei, aprire in questo momento storico gli archivi, o una parte di archivi, a cosa può portare?

R. – Certamente a ridurre la tensione tra i due Paesi. E' un gesto di buona volontà da parte del presidente Hollande. Non so come questo gesto sarà interpretato dalle autorità rwandesi.

D. – Lei continua a vivere a Kigali parte dell’anno. A 21 anni da quello che è accaduto, oggi il Rwanda che Paese è?

R. – C’è stato un milione di morti. Dicevo a quell’epoca che chi era sopravvissuto, era sopravvissuto per miracolo. Non sono ancora naturalmente morti tutti i 6-7 milioni di rwandesi che c’erano in quel momento, e fino a che questo non accadrà lo spettro del genocidio rimarrà, almeno nelle anime di coloro che l’hanno vissuto. Tutto quello che si può fare è cercare di accettare quello che è avvenuto. Però, quando se ne parla e quando se ne discute, quando si ripensa a quelle cose, c’è tutta la mostruosità degli atti che sono avvenuti in quel momento, che riemergono e che fanno male. I fatti erano fatti veri e terribilmente crudeli. Per cui, anche se c’è l’apertura al perdono, non è che questo impedisca di viverne nell’ossessione.

D. – E anche lei oggi ha un incubo, un’ossessione, per ciò che accadde 21 anni fa?

R. – Quello che posso dirle è che ogni volta che parlo di questo in modo abbastanza approfondito, la notte dopo non riesco a dormire.

D. – Nonostante lei abbia salvato centinaia di vite…

R. – Le centinaia di vite che ho salvato sono una piccolissima parte del milione di morti che c’è stato e non sono quelle che rimangono nella mia vita. Quello che rimane nella mia vita sono le atrocità che ho visto passando, andando, vedendo e cercando di fare qualcosa.

D. – Qual è stata la sua forza che l’ha spinta a continuare a stare in Rwanda?

R. – Forse la mia coscienza. La coscienza che potevo fare qualcosa, che con la mia posizione di console onorario, e con la mia posizione sociale importante, con le mie aziende, potevo arrivare ad avere dei contatti con delle autorità che mi permettevano di fare qualcosa.

D. – E oggi, nonostante queste immagini drammatiche che ha vissuto, perché continua a tornare in Rwanda?

R. – Perché, ho dovuto sceglierlo subito dopo la guerra: potevo lasciare e tornare a vivere in Europa, o potevo rimanere e cercare di rimettere in piedi le mie ditte. In ogni caso dovevo vivere, da una parte o dall’altra. E se avessi abbandonato, forse me lo sarei rimproverato molto di più, perché avevo ancora degli amici e dopo ne ho fatti ancora degli altri. È un Paese che per me è quasi altrettanto importante dell’Italia. Credo ci sia una cosa che non si rileva sufficientemente: l’importantissimo passo avanti che il Rwanda ha fatto dopo la guerra. Il Rwanda, quando la guerra è iniziata e poi è terminata, aveva circa 300 dollari di Prodotto interno lordo per persona, attualmente è al di là degli 800. E tutto questo malgrado la distruzione intervenuta anni fa, che hanno saputo superare con una logica nuova. In Rwanda, attualmente, è l’intelligenza che guida il Paese, non l’"intellighenzia" ma l’intelligenza di uomini, di gente formata dalle scuole, dalle università, in modo da poter prendere in carica i propri problemi. 








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