2015-03-24 13:55:00

Giornata in memoria dei Missionari Maritiri, nel 2014 uccisi 26 religiosi


Ricordare i missionari uccisi nel mondo e gli operatori pastorali che hanno versato il sangue per testimoniare il Vangelo. E’ questa la finalità dell’odierna Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri. Un’iniziativa, giunta alla 23.ma edizione, che trae ispirazione dall’assassinio, il 24 marzo del 1980 in Salvador, di mons. Oscar Romero. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

Annunciare il Vangelo fino al martirio. Nel 2014 sono stati 26 gli operatori pastorali a dare questa suprema testimonianza, resa alla verità della fede. Ancora una volta è l’America il Continente dove si registra il maggior numero di martiri. Dal 1980 allo scorso anno – ricorda l’Agenzia Fides - sono stati uccisi 1062 missionari. Un drammaico bilancio da considerare in difetto poiché si riferisce solo ai casi accertati. Morire nel segno della croce – sottolinea don Michele Autuoro, direttore nazionale della Fondazione Missio - è una testimonianza che genera vita:

R. - Sono 26 gli operatori pastorali uccisi. Li ricordiamo anche perché tutti avevano fatto una scelta di vita: donare la propria vita per gli altri, soprattutto affianco ai poveri. Per noi ricordarli è ricordare dei testimoni: noi li ricordiamo perché possano segnare anche il nostro cammino, il cammino della Chiesa. Che questa sia una Chiesa, come dice Papa Francesco, “sempre in uscita”, una Chiesa che ha come compagni di viaggio proprio i poveri.

D. – Testimoni che hanno donato la loro vita. Ma morire nel segno della Croce è una testimonianza che genera vita…

R. – È una testimonianza che genera vita. Innanzitutto, noi siamo stati generati dalla Croce di Gesù: è quella Croce che ha generato per tutti una vita nuova. Da quella Croce c’è la Resurrezione. E, quindi, la testimonianza e il dono della vita sempre generano le nuove esistenze. Generano, soprattutto, una nuova fede: già nei primi scritti cristiani si diceva che il sangue dei martiri è fermento di nuovi cristiani.

D. – C’è un martirio di cristiani nel mondo che, come anche ha denunciato il Papa, viene tenuto nascosto…

R. – Non sempre si pone attenzione oggi a questo martirio di tanti cristiani nel mondo. È come se questa fosse una verità scomoda, una verità che dovrebbe invitare tutti, indipendentemente dalla fede anche, a prendere una posizione, e quindi a difendere: ognuno va difeso, anche ogni minoranza. Il Papa questo lo sottolinea.  Quindi noi dovremmo essere sempre la voce di chi è indifeso, la voce di chi è più piccolo, la voce di chi viene messo da parte, di chi viene emarginato. Noi davanti a tutto questo, se anche come umanità vogliamo crescere, non possiamo tacere, né possiamo far finta che questo non accada.

L’odierna Giornata trae ispirazione dall’assassinio, 35 anni fa, dell’arcivescovo di San Salvador, mons. Oscar Romero. Il presule, che fu ucciso mentre stava celebrando la Santa Messa, sarà beatificato il prossimo 23 maggio. L’arcivescovo era stato soprannominato colui “che dava voce ai senza voce”, come ricorda, al microfono di Fabio Colagrande, il coordinatore della rete internazionale dei “Comitati Oscar Romero”, don Alberto Vitali:

R. – Di fatto, era rimasta l’unica voce nel Paese c dalla parte degli oppressi. Ricordiamo che le sue omelie seguivano uno schema fisso: nella prima parte commentavano la parola di Dio della domenica; nella seconda parte, proprio alla luce della parola della domenica, denunciava i fatti della settimana. Per cui l’unico modo, dentro e fuori il Paese, per sapere quello che realmente stava succedendo era ascoltare l’omelia dell’arcivescovo, omelia che veniva trasmessa via radio. Si è scoperto poi, dopo la fine della guerra, che veramente tutto il Paese si fermava ad ascoltare, dalle caserme ai guerriglieri in montagna. Qualcuno dice che, addirittura, si poteva camminare per le strade di San Salvador senza avere la radio e non perdere alcun passaggio dell’omelia, perché da tutte le case e in tutti i bar si poteva ascoltare.

D.  – E in queste omelie si diceva che ci fossero le liste delle sparizioni, degli assassinii delle torture degli oppositori politici. E’ così?

R. –  E’ così e con denunce non generiche, ma molto circostanziate.

D. – Lei si trova in questo momento in Salvador: come è stata accolta la notizia che mons. Romero sarà proclamato Beato il prossimo 23 maggio?

R. – Con grande entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione. Non dimentichiamo perché, però, che c’è una parte - per quanto minoritaria del Paese - che continua ad essere contraria a mons. Romero. Una delle cose che mi diceva un amico era questa. Appena mi ha visto mi ha detto: di questa beatificazione non ha bisogno mons. Romero, ma abbiamo bisogno noi. Speriamo che sia la volta, questa, in cui riusciamo a riconciliare la memoria storica del Paese.

D. – Quali sono i mali che oggi affliggono la società salvadoregna?

R. – Prima di tutto la violenza, la violenza che continua a persistere. La violenza è rimasta forte ed è dovuta, da una parte, dalle condizioni di miseria di gran parte della popolazione e, dall’altra, anche dal fatto che il partito che è rimasto al governo, fino a sei anni fa, era proprio lo squadrone della morte trasformato in partito politico che aveva ucciso mons. Romero. Il fondatore di questo partito era esattamente il mandante riconosciuto dell’assassinio di mons. Romero. Per cui la violenza nel Paese non è venuta meno e in questo momento, soprattutto, si parla delle “maras” che sono queste bande di strada delinquenziali fomentate anche dal rimpatrio forzato di molti giovani di seconda e terza generazione che dagli Stati Uniti sono stati riportati forzatamente nel Salvador.








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