2015-03-07 13:45:00

Messa del Papa a 50 anni dalla riforma liturgica del Concilio


50 anni fa, il 7 marzo 1965, Paolo VI si recava nella parrocchia romana di Ognissanti per celebrare per la prima volta la Messa in italiano e con l’altare rivolto verso i fedeli, secondo le norme liturgiche stabilite dal Concilio Vaticano II. Per commemorare l’anniversario, il Papa presiede alle 18.00 una celebrazione eucaristica nella stessa chiesa. Al microfono di Davide Dionisi, ricorda il significato di quell’evento don Flavio Peloso, superiore generale degli Orionini, che oggi come ieri reggono la chiesa di Ognissanti:

R. – Fu chiaro intento del Concilio e quindi delle indicazioni della riforma e poi lo disse chiaramente Paolo VI, proprio in quel 7 marzo del 1965, definendo “memorabile” quella data: lo scopo è per rendere intellegibile e far capire la preghiera e per rendere possibile una partecipazione attiva dei fedeli al culto della Chiesa, creare e facilitare questo dialogo, questo incontro tra il popolo di Dio e il suo Dio. Ecco, questo è stato lo scopo principale. Quindi un motivo pastorale che si inserisce in quel più ampio dialogo Chiesa-mondo che il Concilio Vaticano II ha promosso.

D. – Quali sono state, secondo lei, le difficoltà dei sacerdoti?

R. – Le difficoltà sono state tante, ognuno avrà vissuto le proprie. Le due grandi novità evidenti in quella celebrazione del 7 marzo 1965 furono il fatto della lingua italiana e il fatto della celebrazione verso il popolo. Sono due grandi capovolgimenti, innovazioni, dopo secoli e secoli di unità della lingua latina per tutti i popoli; e anche questo segno di rivolgersi verso il popolo che significava un’unità anche assembleare davanti al Signore, con il Signore in mezzo, che ha portato a un ri-orientamento piano, piano al di là delle strutture delle Chiese, ma un orientamento anche spirituale. Tanti adattamenti, la novità, ogni cambio in sé porta degli adattamenti, vorrei dire, affettivi prima ancora che spirituali, che pastorali. Senza dubbio, l’obiettivo di favorire il dialogo tra il popolo di Dio e il suo Dio, questo è stato al centro e questo, come disse Paolo VI nell’Angelus di quella domenica, questo ha aiutato ad affrontare, l’ha definito, un “sacrificio” che la Chiesa ha compiuto, della propria lingua, del latino e dell’unità del linguaggio dei vari popoli, ma - disse – “questo sacrificio valeva la pena ed è per voi fedeli, perché possiate unirvi meglio alla preghiera della Chiesa”.

D. – La Costituzione conciliare sulla riforma liturgica richiamò anche alla conciliazione fra sana tradizione e legittimo progresso. A 50 anni di distanza, secondo lei, questa conciliazione è avvenuta?

R. – Credo proprio di sì. Evidentemente le sensibilità possono essere anche diverse. Ma, innanzitutto, più che conciliazione tra sana tradizione e innovazione, progresso, già nel concetto di tradizione c’è il concetto di progresso, perché “traditio” vuol proprio dire consegnare e consegnare a chi viene. E’ chiaro che poi c’è un certo legame a forme, a valori che fanno da contorno, perché la liturgia è un fatto teologico, è un fatto ecclesiale ma è anche un fatto umano in cui la persona con la sua storia, la sua cultura, è coinvolta. Quindi, che ci siano impazienze da una parte sull’innovazione o anche sofferenze per qualcosa di caro che viene a mutare, questo fa parte del cammino umano di ogni realtà. Io sono a capo di una congregazione, anche in una congregazione avviene questo, e tanto più nella Chiesa, nella liturgia, nella sacra liturgia della Chiesa, questo avviene. Però, mi pare che sia saldamente vigilato l’equilibrio tra fedeltà a quanto ricevuto e fedeltà a coloro a cui si trasmette, è saldamente vigilato dal ministero della Chiesa attraverso il ministero del Papa, delle Congregazioni. In questo c’è una grande tranquillità e serenità di camminare nella fedeltà che si rinnova, una fedeltà creativa, fedele alla santa tradizione.








All the contents on this site are copyrighted ©.