2015-02-22 08:47:00

Ucraina: scambio di prigionieri tra governativi e filorussi


Si è concluso nella notte il primo scambio di prigionieri tra l'esercito ucraino e i ribelli separatisti, che hanno attuato così uno dei punti degli accordi di Minsk. L'operazione ha riguardato 139 militari di Kiev e 52 filorussi e si è svolta a 20 chilometri da Lugansk, città in mano ai ribelli. E secondo alcune indiscrezioni riferite dalla Bbc, le due parti sono d'accordo per cominciare anche il ritiro delle armi pesanti dal fronte. Nonostante la fragile tregua in vigore dal 15 febbraio, i ribelli in questi giorni hanno però continuato a combattere a Debaltsevo, per questo il segretario di Stato Usa, John Kerry, è tornato ad evocare nuove sanzioni contro la Russia, ipotesi che Mosca ha definito “non di aiuto alla soluzione” della situazione. Tutto questo avviene ad un anno dall’eccidio di Maidan a Kiev, quando decine di manifestanti furono uccisi dai cecchini durante le proteste contro il presidente filorusso, Yanukovich. Come è stato vissuto questo anniversario? Michele Raviart lo ha chiesto a Matteo Tacconi, coordinatore di “Rassegna est”, agenzia specializzata in Europa orientale:

R. – La memoria su quello che è successo a Maidan sicuramente viene strumentalizzata da ambo le parti. Se, per quanto riguarda Kiev, Maidan è l’avvenimento che dimostra la brutalità del regime Janukovic, e quindi la legittimità di quella che è stata una rivoluzione, dall’altra, intendo dire Mosca, simboleggia piuttosto quello che i giornali e l’"establishment" politico e anche intellettuale di Mosca definiscono come un colpo di Stato orchestrato dall’Occidente, volto a esautorare un presidente legittimamente eletto. Fa parte un po’ di quella propaganda che ha un suo senso perché stiamo parlando di una guerra e quindi la propaganda fa parte di una guerra e delle ragioni per cui si fa una guerra.

D. – Siamo a una settimana dalla cosiddetta tregua di Minsk. Che cosa ha funzionato e che cosa non ha funzionato finora?

R.  – Siamo di fronte a una situazione un po’ paradossale: la tregua in parte è rispettata ma, nel caso di Debaltsevo, non lo è stata. Non si capisce se appunto la tregua venga rispettata inogni sua parte, oppure se non lo sia. Detto questo, il discorso della tregua risolve e non risolve la questione ucraina, perché a Minsk sono stati definiti altri punti e probabilmente quello più importante è che tipo di ordinamento dare a queste regioni ribelli dell’est, Donetsk e Lugansk. Ecco, lì, Minsk prevede che ci debba essere un accordo costituzionale. Però, detto questo, Kiev vuole decentrare, ma senza rendere l’Ucraina uno Stato federale, e Mosca e i filo-russi vorrebbero al contrario che l’Ucraina fosse uno Stato federale. La Costituzione, se tutto va bene, verrà cambiata nel giro di un anno, ma è possibile che non tutto vada bene e tutto questo può far continuare lo stato di crisi, perfino perennemente.

D.  – Sui futuri assetti istituzionali quanto conterà il successo o il fallimento militare sul campo?

R. – Sicuramente, la questione militare è fondamentale alla luce di tutta l’impalcatura della crisi. Debaltsevo, dove si è combattuto nonostante la tregua che implicava il cessate-il-fuoco, indica che gli spostamenti di terra anche piccoli, ma comunque strategici o simbolici che siano, influenzano l’ossatura complessiva dei negoziati. Per cui, è evidente che si combatte anche per guadagnare potenziali punti in più, carte in più, al tavolo dei negoziati. Tra il negoziato politico e la situazione sul terreno in termini di scontri, in termini militari, c’è un legame di diretta proporzionalità.








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