2015-01-30 07:45:00

L'Is attacca ancora il Sinai egiziano: oltre 40 i morti


Sale la tensione nel Nord dell'Egitto, anche oggi si registrano scontri nella penisola del Sinai, uccisi due bambini. Ieri la strage in cui sono morte 40 persone, per lo più militari. Gli attacchi sono stati rivendicati dal ramo locale del sedicente Stato Islamico. Massimiliano Menichetti:

Sono ripresi i combattimenti nella penisola del Sinai tra l'esercito e i jihadisti, due bambini sono rimasti senza vita, per un proiettile vagante e per un colpo di mortaio. Ieri ennesimo giorno di scontri, oltre 40 i morti, decine i feriti. Colpite Sheikh Zuweid e Al Arish nella parte egiziana di Rafah, al confine con la striscia di Gaza. Sparati razzi, colpi di mortaio, usata anche un’autobomba e armi da fuoco per centrare alcuni edifici delle forze dell'ordine, una stazione di polizia, un albergo militare, un checkpoint. Un poliziotto è stato ucciso da una bomba nella città di Suez. L'operazione dei terroristi, che ha distrutto anche la redazione del quotidiano di Stato Al Ahram, è stata rivendicata da un gruppo egiziano affiliato all’Is. L’attentato è tra i più sanguinosi, nel Sinai settentrionale, fin dalla svolta politica che ha portato al potere l'ex generale Abdel Fattah al-Sisi. Una strage che si è consumata nel giorno in cui la Suprema commissione elettorale ha reso noto che dall’8 febbraio potranno essere registrate le candidature alle elezioni parlamentari che si terranno in due fasi: tra il 21 marzo e il 7 maggio prossimi.

Per un'analisi su quanto sta accadendo in Egitto, ai nostri microfoni Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento e autore del libro edito da Il Mulino, “Le rivolte arabe e l’islam”:

Destabilizzazione del Sinai
R. – Il Sinai, ormai, è diventato una sorta di zona franca in cui gli infiltrati, appartenenti alle più diverse organizzazioni radicali, si inseriscono in un quadro di potenziale destabilizzazione. Gli obiettivi sono naturalmente quelli di creare un punto di riferimento in cui le forze qaediste possano poi allargarsi verso la Siria e lo Stato islamico, e a ovest – evidentemente – verso l’Egitto.

D. – Perché l’ex generale, il presidente, l’uomo forte, al Sisi, non riesce a contenere questa situazione?

R. – Forse anche perché lo interessa poco, nel senso che comunque una circoscrizione, una localizzazione del pericolo islamista in una zona come il Sinai che in qualche modo è geograficamente separata, e poi deserta, può condurre ad un maggiore controllo di queste forze destabilizzanti.

Pugno di ferro contro opposizioni
D. – Lei è appena rientrato dal Cairo, e questa è la settimana in cui si sono svolte e si svolgono le manifestazioni a quattro anni dalla caduta di Mubarak. Qual è la situazione?

R. – Sembra che ci siano stati anche più di 20 morti, ma questo dipende dal fatto che il regime ha colpito con il pugno duro quelle manifestazioni che si opponevano alla linea ufficiale, mentre la grande massa della popolazione restava assolutamente inerte. Le manifestazioni, quelle “serie”, sono pilotate dal regime per scaricare sui Fratelli Musulmani, che sono definiti terroristi e alleati dell’Is e di al Qaeda, la responsabilità dei mali dell’Egitto. Al Sisi applica veramente un pugno di ferro e gli oppositori devono rendersi conto che non solo non hanno gli spazi per protestare, ma che se osano protestare possono venire repressi con la violenza, sul posto.

D. – Ma che cosa è rimasto di quella che veniva definita una “rivoluzione democratica”?

R. – Una evoluzione veramente democratica della rivoluzione egiziana non mi sembra ancora in prospettiva, e anche gli intellettuali che ho potuto incontrare sono molto divisi: ne ho sentiti alcuni che sostenevano la politica di al Sisi ritenendo che in qualche modo al Sisi potesse essere la chiave di risoluzione dei rischi e dei pericoli dell’Egitto; ma ne ho sentiti altri che invece vedono la situazione attuale come una pericolosa involuzione che, oltretutto, colpisce anche le – semmai ci fossero state – speranze dell’islam di poter essere protagonista delle cosiddette “rivoluzioni arabe”.

Verso le elezioni
D. – Che speranze ci sono per le prossime elezioni parlamentari, che ci saranno tra marzo e maggio?

R. – Mi sembra che sia difficile aspettarsi o sperare che queste elezioni siano veramente elezioni libere, anche perché non è vero che tutti i partiti potenzialmente sul terreno – tipo i partiti religiosi – abbiano spazio per esprimersi. Io credo che non ci sarà da aspettarsi molto dalla presa del presidente, ma anche del governo, sulla situazione, sul Parlamento: sarà senza dubbio una presa molto forte. Anche perché, certo, c’è la giustificazione di una potenziale destabilizzazione terroristica, c’è il fatto che l’Egitto ha un’economia in grave difficoltà che deve essere raddrizzata … Certamente, una frantumazione parlamentare non va nella direzione di una stabilità del Paese.

Popolazione passiva
D. – Ma la popolazione, che percezione ha?

R. – E’ assolutamente passiva. Quando ci sono stati gli scontri con i morti, la vita ha continuato a scorrere tranquillamente … Obiettivamente, che si veda un coinvolgimento diretto della popolazione o una popolazione che fosse pronta a riprendere la bandiera della rivoluzione, direi proprio di no. Il mio auspicio è che al Sisi, nel momento in cui si sentisse saldamente al potere, riuscisse a imboccare una strada di vero miglioramento economico delle condizioni di giustizia sociale. Questo vuol dire che noi non dobbiamo guardare tanto al processo con in mente il cammino “democratico” che è usuale nelle società occidentali, ma con quello che è veramente funzionale all’interno degli equilibri politici dell’Egitto. Un Egitto forte dal punto di vista economico, e stabile dal punto di vista sociale credo che possa giocare anche più positivamente, ad esempio relativamente al problema palestinese, un ruolo più decisivo.








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