2015-01-22 15:45:00

Londra, vertice dei Paesi anti-Is


A Londra, vertice dei rappresentanti di 21 dei 60 Paesi di tutti i continenti, compresi diversi Stati arabi, che hanno aderito alla coalizione internazionale contro il cosiddetto Stato islamico, lanciata dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel settembre scorso. Il servizio di Roberta Gisotti:

A pochi passi da Buckingham Palace si sono riuniti a Lancaster House i capi delle diplomazie dei Paesi più coinvolti nella lotta agli jihadisti del sedicente Stato islamico. Presenti anche delegati dell’Unione Europea e dell’Onu. Folta la rappresentanza degli Stati arabi: Bahrein, Egitto, Iraq, Giordania, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, a significare quanto la minaccia jihadista sia in primo piano nelle preoccupazioni non solo dei Paesi occidentali. Da segnalare anche la presenza della Turchia. Dopo la prima riunione a Bruxelles, il 3 dicembre scorso, della Coalizione nata in formato ristretto di 10 Paesi divenuti ben presto 60, sul tavolo di Londra sono misure per fermare il flusso di denaro e di volontari verso lo Stato islamico e maggiori aiuti alla forze che combattono gli jihadsti sul terreno e aiuti umanitari alle popolazioni perseguitate.

Alla luce dell’aggravarsi della situazione nei territori occupati dalle milizie dell’Isis e della minaccia del terrorismo islamista, ci si chiede infatti a che punto è l’operato della coalizione. Arturo Varvelli, esperto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), a capo del programma sul Terrorismo:

R. – Quello che abbiamo visto finora è una sorta di contenimento che la coalizione internazionale è riuscita ad effettuare del fenomeno “Stato islamico”. Contenimento per quanto riguarda la sua espansione territoriale – quindi un obiettivo, il primo – è stato raggiunto e bisognerà passare a un secondo obiettivo che è quello dell’annientamento dello Stato islamico. In realtà, bisognerebbe poi focalizzarsi su un terzo obiettivo, che è fondamentale per la portata generale dell’intervento, che è un intervento più politico: cioè, che cosa fare di Paesi il cui collasso ha permesso il proliferare dello Stato islamico. Parliamo in particolar modo di Siria da una parte e di Iraq dall’altra, che sono essenzialmente le cause della nascita di Isis. Quindi, da questi incontri ci aspettiamo qualcosa di più sul secondo e sul terzo punto.

D. – Quali sono però gli equilibri all’interno della coalizione? Sappiamo della presenza di diversi Stati arabi…

R. – E’ essenziale che la coalizione proceda naturalmente con un’unica volontà politica. Quello che abbiamo visto in passato, in interventi internazionali, ad esempio in quello in Libia, è che la comunità internazionale interviene con diversi intenti e subito dopo la fine del conflitto, o anche durante il conflitto, gli attori, pur appartenendo a una coalizione internazionale, agiscono ognuno indipendentemente, per i propri interessi nazionali, appoggiando una fazione rispetto ad un’altra. E’ quello che è successo anche nella guerra siriana e che ha permesso un proliferare di Isis. Quindi, in realtà è necessario che prima di pensare ad azioni in gioco l’una contro l’altra, ci debba essere una volontà comune a livello internazionale. Paesi molto diversi partecipano alla coalizione internazionale. I Paesi arabi hanno rivalità interne molto forti. Abbiamo visto un’adesione dell’Egitto, ma ci sono anche altri Paesi che hanno approcci molto diversi.

D. – Ma dobbiamo aspettarci di più da una possibile azione militare condivisa o invece da mediazioni politiche?

R. – L’ipotesi, che sembra sia stata scartata, è ancora quella di mettere “boots on the ground”, cioè di scendere sul terreno direttamente con i militari della coalizione: questa sembra un’ipotesi scartata, ma sarebbe certamente un’ipotesi che porterebbe a diverse problematiche. La soluzione che si sta provando è di armare ulteriormente altri gruppi, come ad esempio i curdi, che finora hanno fatto fortemente da argine alla penetrazione di Isis in nuovi territori. Anche questo alla fine potrà causare ulteriori e nuovi problemi. Pensiamo se vincessero i curdi, se riuscissero ad avere la meglio su Isis, alla fine delle vicende potrebbero reclamare uno spazio di indipendenza o di autonomia. Quindi, mentre noi interveniamo dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze che noi stiamo già causando. Sono situazioni che noi abbiamo già visto, che si sono verificate con l’Afghanistan. Quella dell’Afghanistan è un’ipotesi che fa scuola: armavamo gli insorgenti afghani contro l’Unione Sovietica e abbiamo finito per creare i talebani. Quindi, i pericoli sono esattamente quelli.








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