Gli islamisti libici hanno sospeso i colloqui di pace recentemente avviati dall’Onu a Ginevra, accusando il governo del premier Abdullah Al Thinni - riconosciuto dalla comunità internazionale - di non aver rispettato la tregua. E hanno fatto sapere che non riprenderanno i negoziati, nemmeno se venisse accolta la loro richiesta di tenerli in Libia. Secondo gli islamisti, l'esercito regolare avrebbe attaccato una filiale della banca centrale a Bengasi.
Nei giorni scorsi, le Nazioni Unite avevano tracciato una "road map" in vista di nuovi negoziati tra le due fazioni che si contendono la titolarità del governo centrale libico: l’esecutivo di Abdullah Al Thinni - espressione del parlamento eletto con il voto del giugno scorso e recentemente trasferito da Tobruk ad Al Beyda - e il governo a maggioranza islamista guidato da Omar Al Hassi, legato all’ex Congresso generale nazionale riunito a Tripoli. Nell’esercito, inoltre, sta assumendo un ruolo sempre più rilevante l’ex generale, Khalifa Haftar, in lotta contro le milizie islamiste. Nelle ultime ore, poi, cresce l’apprensione per le sorti di un medico italiano operante nel Paese nordafricano, che risulterebbe irreperibile dal 6 gennaio.
In questo quadro, che immagine ne esce della Libia? Risponde Renzo Guolo, docente di Sociologia dell’Islam all’Università di Padova, intervistato da Giada Aquilino:
R. – Siamo in una situazione di estrema frammentazione, nel senso che la Libia oggi ha due governi, due parlamenti: Tripoli e Tobruk. Il governo di Tobruk è quello riconosciuto dalla comunità internazionale e quello di Tripoli, che nella realtà controlla la capitale, è invece in mano a uno schieramento islamista, seppure molto composito al suo interno. Non si riesce a trovare una soluzione, perché ciascuno non riconosce nell’altro una legittimità, persino in presenza di guerra per procura, combattuta anche dai Paesi vicini: pensiamo al sostegno che alcuni Paesi arabi, in particolare l’Egitto, offrono al general Haftar.
D. – La sospensione dei colloqui a Ginevra può essere una strategia o le trattative possono considerarsi in stallo, se non addirittura naufragate?
R. – E’ difficile che in questa situazione ci possa essere fondamentalmente una ripresa veloce dei colloqui, che porti almeno ad una soluzione a breve, anche se il tavolo può rimanere aperto. Qui il problema vero è che ormai ciascuno pensa che l’altro sia un nemico, non un avversario con cui ricomporre un quadro unitario del Paese. Il vero nodo è che in questo modo anche tutte le spinte autonomiste e l’ipotetica divisione tra la Tripolitania, l’area della Cirenaica e il Fezzan - di cui nessuno parla ma che gravita, più che verso il Mediterraneo, ormai verso l’Africa subsahariana - possano diventare realtà.
D. – Nel caos libico del post Gheddafi, che ruolo stanno giocando le milizie jihadiste di Ansar al-Sharia, le cellule dello Stato islamico concentrate al Sud?
R. – E’ ovvio che questo è un grande rischio, perché soprattutto nell’area di Derna, che è la più problematica, Ansar al-Sharia è già ben consolidata e diffusa e la sua alleanza con il Califfato dello Stato islamico può generare un serissimo problema, ossia trovarsi un gruppo alleato di al-Baghdadi sulle sponde del Mediterraneo. Anche se ovviamente oggi questo gruppo tende ad un controllo territoriale limitato e non è d’accordo con l’altra ala islamista, quella legata ai Fratelli Musulmani, se non nell’obiettivo tatticamente convergente di opporsi al governo di Tobruk.
D. – Ha già detto degli appoggi egiziani all’ex generale Haftar: ma che figura è?
R. – Faceva parte delle forze armate gheddafiane e poi si è stabilito negli Stati Uniti. Ha cercato di diventare il punto di riferimento dei poteri che nell’area e nella regione si battono appunto contro l’affermazione islamista, soprattutto in versione radicale. In questo senso ha ottenuto l’appoggio sia dell’Egitto, sia di alcuni Paesi del Golfo. Si gioca, quindi, anche una partita che ha a che fare con la stabilità degli altri Paesi, in questa vicenda.
D. – Il dipartimento di Stato americano ha lanciato un nuovo allarme per tutti i cittadini statunitensi a lasciare la Libia. D’altra parte, nel Paese continuano le sparizioni e i rapimenti. La situazione è ormai fuori controllo?
R. – Sì, sicuramente, la Libia può essere annoverata purtroppo ormai nel lungo elenco dei cosiddetti Stati falliti, il cui territorio è fuori controllo proprio perché, al di là della presenza di due governi, nessuno in realtà lo controlla fino in fondo, se non in determinate aree. In questo contesto, proliferano non solo fazioni che si battono, ma poi anche gruppi di predoni che si muovono con logiche proprie e che quindi puntano a massimizzare la rendita che deriva da queste vicende, compresa la presa di ostaggi. Quindi questo è un grande problema: cioè il problema della sicurezza, forse oggi insieme alla gestione degli introiti economici derivanti dalla vendita del petrolio e ovviamente insieme alla crisi politica, è il fattore chiave della decomposizione di quella che un tempo si usava chiamare la ‘quarta sponda’.
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