2015-01-02 14:57:00

2015 e gli Obiettivi del millennio: fame e povertà restano


Sradicare la fame e la povertà, raggiungere l’istruzione primaria per tutti, ridurre la mortalità infantile, combattere l’Hiv e la malaria, assicurare la sostenibilità ambientale. Sono alcuni degli Otto Obiettivi del Millennio sottoscritti nel 2000 da 191 capi di Stato e di governo per un patto tra Paesi ricchi e poveri su un reciproco impegno a costruire un mondo più equo per tutti entro il 31 dicembre del 2015. Ma a un anno dalla fine del termine prefissato, a che punto sono questi Obiettivi? Marina Tomarro lo ha chiesto Massimo Caneva, esperto internazionale di cooperazione universitaria e affari umanitari:

R. – Chi partecipò, come capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Onu, cercò in quella data di affrontare alcune tematiche prioritarie. In quel momento, nessuno pensava che la situazione fosse diversa da quello che loro credevaio, rispetto agli Obiettivi del Millennio in sé. Si può dire che lo sforzo delle Nazioni Unite sia stato un sforzo concentrato su questi otto obiettivi e posso dire che alcuni risultati, per lo meno di coesione sul raggiungimento di obiettivi, ci sono stati per quello che riguarda alcuni aspetti. Purtroppo, rimane profondo il divario tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri e ancora ci sono un miliardo di persone che vivono in estrema povertà con 800 milioni di affamati. Bisogna rivedere alcune idee di fondo e stabilire alcuni criteri per cui si rispetti di più la persona umana, i suoi valori, anche nei programmi di educazione.

D. – Alla luce della società attuale, oggi ci sarebbero altri obiettivi da aggiungere, secondo lei, o restano sempre questi otto, i principali?

R. – Il punto di vista personale mi porta a confermare alcuni punti di questi otto obiettivi. Certamente, l’attenzione alla povertà, certamente l’attenzione alla salute materna e infantile, certamente l’attenzione a quello che riguarda l’ambiente, di cui dobbiamo preoccuparci sempre più. Ma io credo che attualmente le Nazioni Unite debbano preoccuparsi di due grandi fenomeni. Il primo è l’instabilità dei Paesi relativamente collegati alle crisi interreligiose e geopolitiche e l’altro di come nei Paesi occidentali le nuove generazioni siano capaci e attente a risolvere questi problemi. C’è l’emergenza di creare figure che sappiano gestire ma anche prevenire le crisi, e non solo inseguirle nelle sue conseguenze.

D. – Questi altri obiettivi erano rivolti soprattutto ai Paesi del Sud del mondo. Dove questi obiettivi sono stati raggiunti maggiormente e dove invece c’è un maggior bisogno di continuare a operare?

R. – Fondamentalmente, io credo che l’Africa sia un continente che ha bisogno ancora di molta attenzione, perché è un continente in cui si cerca di sperimentare nuove tecniche, sia nel settore ambientale, sia nella salute; però, l’interesse primario molte volte, purtroppo, non solo da parte dei Paesi occidentali ma anche della Cina, che è emergente, è quello di sfruttare le loro risorse naturali. Un altro punto dolente ma su cui dobbiamo intervenire è tutto il rapporto con i Paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo, dell’Asia… Ecco, noi dobbiamo cambiare completamente il concetto di cooperazione e una delle cose più importanti è investire nella formazione. L’università è un punto centrale: dobbiamo investire in questo. La cultura della cooperazione affronta e risolve i temi alla radice di tutti gli obiettivi: non solo gli otto del Millennio, ma di quelli che l’uomo deve affrontare nel prossimo futuro.








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