2014-11-15 14:00:00

Lectio magistralis di padre Lombardi, testo integrale


Testo integrale della Lectio magistralis di padre Federico Lombardi alla Pontificia Università Salesiana in occasione del conferimento del Dottorato honoris causa in Scienze della Comunicazione sociale:

25 anni al servizio delle comunicazioni sociali con tre Papi

Carissimi, ringrazio per questo onore che mi viene fatto. Io so benissimo di non essere uno specialista, un teorico delle comunicazioni e mi sento un po’ intimidito dall’essere invitato a parlare davanti a una Facoltà, ai professori, agli studiosi specialisti della materia. Ho ricevuto un compito, una “missione” come diciamo nel vocabolario dei gesuiti, e ho cercato di rispondervi con le forze, l’intelligenza ed il cuore.

Di fatto sono stato dunque chiamato a spendere gran parte – in certo senso la maggior parte – della mia vita in questo campo, e ora, passati i settant’anni, l’età che secondo il salmo 90 può già essere considerata una sufficiente misura della vita, si continua a servire e lavorare, ma – come consiglia il Salmo – “contando i nostri giorni” bisogna soprattutto chiedere che il Signore ci insegni “la sapienza del cuore”.

Perciò non è inutile riflettere, meditare, pregare sull’esperienza fatta; fare qualche bilancio davanti agli uomini e davanti a Dio. Se questo può essere di qualche utilità a qualcuno può anche essere giusto condividerlo con semplicità. In questo senso confesso di aver accolto, dopo qualche dubbio, la idea della Facoltà di partecipare alla festa per i suoi 25 anni accogliendo un riconoscimento per il mio servizio nelle comunicazioni sociali.

Fra i motivi a favore per accogliere questa proposta ne vorrei ricordare due, che del resto sono già stati ricordati da chi ha parlato con tanta benevolenza prima di me. Il primo è che sono ormai quasi 25 anni che sono al servizio della Santa Sede e dei Papi nella comunicazione sociale in istituzioni vaticane, quindi in questo servizio sono praticamente coetaneo della vostra Facoltà.

Il secondo è la lunga e profonda storia di amicizia con i salesiani, la gratitudine per avere avuto diversi di loro come indimenticabili educatori nella mia giovinezza. Con i salesiani e in mezzo a loro mi sento dunque sufficientemente a casa per poter parlare di questo mio servizio, come si suol dire, con il cuore in mano.

Dunque, secondo il mio metodo abituale di non accademico, cercherò di raccontarvi un po’ della storia di questi ultimi 25 anni come vissuta e vista da me, per cercare di trarne alla fine, come dice Sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali, “qualche frutto”.

Io ho cominciato il mio servizio alla Radio Vaticana nel 1991, nel giorno stesso in cui cadevano le prime bombe su Baghdad, iniziava la prima guerra del Golfo. Ero stato nominato Direttore dei Programmi e non avevo la minima idea di che cosa avrei dovuto fare nella mia nuova veste in quella situazione. Per mia fortuna capii abbastanza rapidamente che il mio compito non era così difficile come potevo temere, perché la Radio Vaticana era la “radio del Papa” e il primo commentatore della realtà e della storia che vivevamo era in realtà il Papa stesso, e il Papa non era silenzioso né latitante di fronte a quello che succedeva nel mondo.

La pace. Parlare di pace. Continuamente e pervicacemente. Quante volte in questi anni i Papi ci hanno pazientemente e costantemente guidato a parlare di pace, a volte appassionatamente picchiando il pugno sul davanzale della finestra come faceva Giovanni Paolo II, a volte accoratamente, a volte sperando contro ogni speranza. Come dimenticare la accanita diplomazia di pace di Giovanni Paolo II ormai vecchio, che cercava con lungimiranza di opporsi allo scoppiare della seconda guerra del Golfo.

Fino ad arrivare ai giorni recenti di Francesco, con la giornata di preghiera per la Siria e la preghiera con ebrei e palestinesi in Vaticano, iniziativa che molti considerano fallita, ma egli dice di no: abbiamo aperto una porta, e chi vuole la può usare. Purtroppo sempre rinasce la guerra, ma proprio per questo quindi sempre dovremo parlare di pace.

Usare la comunicazione per la pace: per annunciarla, per fare capire la difficoltà e la complessità della sua costruzione, per accompagnare e sostenere gli operatori di pace di ogni genere, per educare alla pace, per farla passare negli atteggiamenti quotidiani attraverso il tono della voce, gli atteggiamenti di dialogo o le immagini, a seconda del medium che si usa.

Giustamente la associazione “Signis” ha dedicato una lunga campagna al tema: “I media per una cultura di pace”. Non dimenticherò mai il ruolo avuto dalla radio “delle mille colline” nell’alimentare l’odio in occasione del genocidio del Rwanda. So che si può usare la parola per dividere, ma che la si può usare anche per unire. Permettetemi di ripetere ancora una volta in questa occasione un motto essenziale per la mia vita di comunicatore: Comunicare per unire e non per dividere, comunicazione per l’unione, per la comunione, nella famiglia, nella società, nella Chiesa, fra i popoli.

C’è chi pensa che bisogna alimentare il conflitto per dinamizzare la comunicazione. Permettermi di dire che io sono radicalmente contrario: odio e rifiuto questo uso della comunicazione. Lo dico con tutto il cuore. Ho cercato sempre e continuerò a cercare sempre nella direzione contraria.

Comunicare per unire è quindi il primo messaggio che volevo darvi stasera. In questi giorni abbiamo commemorato anche i 25 anni della caduta del muro di Berlino. Anche questo è avvenuto 25 anni fa. Allora l’Europa è cambiata radicalmente. La situazione dei Paesi dell’Est Europa è cambiata profondamente, e anche la situazione della Chiesa in essi.

Come forse sapete, delle Sezioni linguistiche della Radio Vaticana, ben 15, cioè circa la metà, sono dedicate a lingue di Paesi che erano al di là della cortina di ferro ed erano state aperte al tempo del dilagare della oppressione comunista alla fine della seconda guerra mondiale.

Il servizio per i popoli oppressi e le Chiese perseguitate è stato una vera epopea, una pagina gloriosa della storia della comunicazione vaticana, concretamente della Radio Vaticana. Non dimenticheremo mai il fiume delle lettere di ringraziamento giunte alle nostre Sezioni dopo la caduta dei muri, e che parlavano di ciò che ascoltatori fino allora anonimi avevano ricevuto grazie al servizio reso possibile dalle onde corte, che neppure le dittature più spietate potevano impedire. La sola Sezione Ucraina ricevette 40.000 lettere in un anno, oltre 100 al giorno, una vera montagna.

Ma poi, quante volte fin dai primi anni 90 mi sono sentito dire: adesso che è caduto il comunismo che bisogno c’è ancora dei programmi per l’Est Europa? Le potenze occidentali avevano avuto anch’esse dei programmi radio per l’Est, e li riducevano e li chiudevano. Il comunismo era sconfitto e non c’era più bisogno di spendere soldi per combatterlo. Ora anche il Vaticano poteva risparmiare.

Quando sentivo questi discorsi ero inferocito. Certo, avevamo sostenuto le Chiese nella persecuzione comunista e ora questa era finita. Ma forse che noi parlavamo a quelle Chiese solo per combattere il comunismo? E ora che si trattava di passare alla vita nella libertà, di vivere come Chiesa nella situazione sconosciuta della democrazia, di partecipare alla vita della società, e ora che all’ateismo militante comunista subentravano le tentazioni insidiose del materialismo delle società del benessere? Forse che resistere a queste tentazioni era molto più facile che resistere nella persecuzione? Ora che Papa Woityla interrogava i popoli dell’Europa dell’Est su che cosa ne stavano facendo dell’agognata libertà, noi dovevamo pensare che la nostra missione fosse finita? E le Chiese dei popoli dell’Est, che cominciavano a organizzarsi anche nel campo delle comunicazioni sociali, non avevano bisogno di interlocutori e amici che le aiutassero a crescere in questo campo?

La comunicazione per la Chiesa e per i popoli deve accompagnare la loro vita e la loro situazione storica, interpretarne le attese e i bisogni. Se si amano davvero i popoli si continua a camminare con loro. Ricordo ad esempio, nel mio piccolissimo servizio di supplenza per la direzione del Programma Bulgaro che era rimasto per un certo tempo senza responsabile, i cicli di trasmissioni sulla dottrina sociale della Chiesa, o sui documenti del Concilio Vaticano II, perché la Chiesa locale potesse riprendere a respirare in sintonia con quella universale, che per molti anni aveva fatto un cammino a cui essa per tanti aspetti non aveva potuto partecipare.

E quando scoppiarono le crisi nei Balcani, cercai con molto cuore per anni di radunare intorno a uno stesso tavolo le ben sei Sezioni della Radio Vaticana dirette a quell’area, per elaborare programmi comuni o coordinati con cui rivolgerci ai loro popoli per facilitarne il dialogo e la comprensione reciproca.

Qui mi sia permesso di dare testimonianza su una dimensione della comunicazione che ha costituito un aspetto fondamentale e affascinante del mio servizio in questi venticinque anni, ma che è stato ed è oggi tuttora - e forse ancor più che in passato - oggetto di discussione. Parlo del servizio multilinguistico per le diverse parti del mondo, che è più ampio di quello che ho già ricordato per i paesi dell’Europa dell’Est, allargandosi anche agli altri continenti, e usando lingue che permettono di entrare in dialogo con altre culture. Sono ben consapevole che da Roma non potremo mai parlare tutte le lingue del mondo, ma credo che per la Chiesa sia doveroso dimostrare che sa parlare lingue di tutti i continenti e che è interessata ad inculturare i suoi messaggi nel contesto delle diverse situazioni e culture. Che le diverse culture possono sentirsi a casa a Roma, e che Roma non si sente estranea a nessun popolo. La varietà culturale è una conseguenza necessaria della universalità della Chiesa, della sua attenzione reale alle periferie.

Capire e conservare il valore della varietà delle culture – che si esprime in modo eminente nella varietà linguistica – è dunque il mio secondo messaggio. A cui se ne unisce subito un terzo, strettamente congiunto, che riguarda l’attenzione alle minoranze e alle regioni povere di possibilità tecniche ed economiche, ciò che si riflette anche nel campo delle comunicazioni sociali. “Ricordati dei poveri”, diceva il card. Hummes al card. Bergoglio mentre veniva eletto Papa. Dobbiamo ricordarci dei poveri anche nell’attività comunicativa, perché è facile che chi ha già più possibilità venga ulteriormente favorito e abbia più facile accesso alle nuove tecnologie. Dietro la costanza pervicace - e spesso incompresa - nella nostra difesa dell’uso delle onde corte, anche oggi, per il servizio delle regioni del mondo più povere o isolate, in particolare in Africa, Medio Oriente, Asia, sta appunto questo “Ricordati dei poveri”.

Non c’è modo di riportare ora qui le testimonianze più commoventi, le voci di ascoltatori che si trovano negli angoli più incredibilmente appartati del mondo. Ma in quest’occasione non potevo non ricordare che, pur senza sottovalutare l’importanza del calcolo e dell’ampliamento delle dimensioni quantitative dell’audience, noi abbiamo sempre considerato nostro dovere orientarci - prima ancora - sulle esigenze delle minoranze, di coloro che soffrono ingiustizia, dei poveri. “Ricordati dei poveri”, anche come comunicatore, è dunque il terzo messaggio.

Nei primi mesi del 2001, come ricorderanno i non giovanissimi, finito il grande entusiasmo e l’invasione informativa del Grande Giubileo, ci fu chi pensò giunto il momento buono per condurre un attacco pesante a istituzioni vaticane, utilizzando un argomento che negli ultimi anni era diventato più sensibile nella opinione pubblica, quello ambientale-sanitario. La polemica contro la Radio Vaticana per il cosiddetto elettrosmog causato dalle trasmissioni dal Centro di Santa Maria di Galeria si sviluppò con particolare aggressività, complice anche il contesto elettorale. Per diversi mesi l’argomento occupò notevole spazio sulla stampa e nelle emittenti italiane, ed ebbe echi anche all’estero, e non fu facile sostenere le buone ragioni per una valutazione obiettiva dei problemi, dato il contesto emotivo che accompagna questo genere di dibattiti quando escono dall’ambito scientifico-tecnico.

Non tutti hanno il coraggio di resistere a lungo in una situazione di impopolarità. Mi pare che anche i magistrati che si occupano di queste situazioni non siano sempre esenti dall’essere influenzati. Vi posso assicurare che essere accusati per mesi impunemente - su testate e in trasmissioni importanti - di uccidere i bambini, non è una situazione piacevole.

Allora ho riflettuto che c’era una condizione necessaria per saper resistere con calma e con decisione: avere personalmente la coscienza a posto e cercare onestamente la verità, per capire se ci fossero eventuali agganci delle accuse alla realtà. Per mia fortuna potevo essere ragionevolmente convinto che in quel caso le accuse gravi non erano fondate, ma in ogni caso bisognava fare effettivamente ciò che è giusto e possibile per rispondervi, non solo nelle parole ma anche nei fatti. Gli attacchi più violenti durarono circa sei mesi, poi, dopo le prime decisioni della Commissione bilaterale Italia - Santa Sede, il dibattito continuò ad accompagnarci per anni, ma in modo meno virulento. Ad ogni modo quella fu per me una prima grande scuola di “comunicazione di crisi”, che mi allenò per il futuro. Nella Chiesa infatti le situazioni di crisi, in cui essa si trova sotto attacco, non mancheranno mai.

Perciò non dimenticate: se si ha la coscienza a posto e se si cerca obiettivamente la verità, si può resistere in qualsiasi situazione. E’ il quarto messaggio.

Sempre nel 2001, il Centro Televisivo Vaticano si trovò in situazione di emergenza per la partenza del suo Direttore, e i Superiori pensarono bene di chiedermi di assumerne la Direzione almeno provvisoriamente. Non ero per nulla esperto di televisione, perciò cercai di accompagnare la bella comunità di lavoro del CTV come guida attenta e ragionevole, appoggiandomi il più possibile e facendo riferimento all’esperienza e alle competenze di coloro che ne facevano parte. Così, passo passo, riuscimmo a crescere fino ad essere pronti per la grande occasione del passaggio di pontificato del 2005. Il precedente passaggio di pontificato risaliva a 27 anni prima, in una situazione tecnologico-comunicativa molto diversa. Ci trovammo ad essere il perno di quello che forse può essere definito il più grande evento televisivo della storia fino ad allora, e credo che facemmo un buon servizio con i mezzi relativamente limitati di cui disponevamo. Fra gli altri record stabiliti si può ricordare quella che forse fu la più lunga diretta televisiva della storia: quasi una settimana ininterrotta del fluire notte e giorno dei fedeli a rendere omaggio alla salma del Papa in San Pietro. Eravamo una piccola équipe di fronte a un compito immenso. Allora ho potuto sperimentare ancora una volta che l’unione e la motivazione forte di un gruppo può permettere di affrontare con slancio imprese che di per sé possono apparire superiori alle forze. In quei giorni ho ripensato spesso a quello che avevo imparato da ragazzo dai miei indimenticabili capi del gruppo scout Torino 24 dell’Oratorio della Crocetta – penso in particolare a Luciano Ferraris e a Don Dusan Stefani, che diversi di voi hanno conosciuto – che ci avevano saputo dare l’entusiasmo, il metodo e il coraggio necessari per prendere le nostre biciclette, quelle con cui andavamo a scuola ogni giorno quando avevamo 13 o 14 anni, e partire da Torino per arrivare fino a Barcellona, a Parigi e addirittura ad Oslo. Se ci si prepara bene e si è ben motivati, tutti possono arrivare a fare grandi imprese. Ma sono persone, non numeri, non funzioni, non “risorse umane”. Persone concrete, con cui si possono fare cose grandi ed entusiasmanti, grandi servizi per l’umanità perché sapranno dare il meglio di sé per una grande causa.

Il servizio della Chiesa e di un Papa amato può dare la motivazione per fare insieme – insisto: insieme, come comunità – grandi imprese anche nella comunicazione. E’ il quinto messaggio.

Ma la riflessione più profonda che porto con me del tempo di servizio al CTV riguarda il modo di seguire la malattia di Giovanni Paolo II. Per cinque anni, gli ultimi cinque anni del Pontificato, con gli operatori del CTV abbiamo seguito giorno per giorno il Papa, sul cui volto e nella cui persona i segni della malattia diventavano sempre più evidenti. Come sappiamo, il Papa non voleva far mistero della sua malattia, anzi la ha voluta vivere sotto gli occhi del mondo continuando a svolgere il suo ministero, con la consapevolezza di dare così una preziosa testimonianza di fede e di vita cristiana nella malattia. La immagine televisiva è stata lo strumento principale attraverso cui questa testimonianza passava, dando conforto e suscitando la compartecipazione di un numero sconfinato di persone. La responsabilità degli operatori del CTV, dei cameraman che riprendevano e del regista delle trasmissioni in diretta, era veramente grande. Voglio dare qui un riconoscimento doveroso della nostra immensa gratitudine per Mons. Stanislao Dziwisz, che è stato in tutto quel tempo l’insostituibile consigliere, l’unico mediatore capace di interpretare fino in fondo per noi i sentimenti e le intenzioni di Giovanni Paolo II. Senza le sue indicazioni, la sua comprensione e la sua amicizia non ci sarebbe stato possibile vivere con serenità l’impegno straordinariamente coinvolgente di quegli anni.

Ma il fondo della mia riflessione riguarda l’amore. Sono assolutamente convinto che non sarebbe stato possibile seguire con la telecamera e ridare al mondo l’immagine del Papa sofferente, con la verità e insieme con la discrezione e il rispetto dovuto al malato, se le camere e la regia non fossero state guidate istintivamente da un grande amore per la persona che viene ripresa. L’occhio guidato dall’intelligenza e forse ancor più dal cuore. Fin quando devi soffermarti con compassione ammirata sul volto sofferente? e quando devi distogliere lo sguardo dal volto contratto e deformato da uno spasmo incontrollabile?... questo te lo dice il rispetto amoroso per la persona che guardi.

Questo è il capitolo che mi è rimasto più profondamente impresso del nostro servizio di comunicazione attraverso l’immagine. Sono però convinto che discorsi analoghi si possono fare anche per le altre forme di comunicazione. Non mi dilungo.

Lascerò solo questo sesto punto: per capire e comunicare veramente il messaggio più profondo che una persona vuol darci bisogna amarla, amarla molto.

La terza istituzione vaticana in cui mi sono trovato a servire, come sapete, è la Sala Stampa della Santa Sede, a cui sono stato chiamato nell’estate del 2006, anche in questo caso piuttosto di sorpresa. In questa istituzione ho sperimentato, più che nelle altre due, la problematica del rapporto fra il governo della Chiesa – da parte del Papa e dei suoi principali collaboratori – e la comunicazione, fra il funzionamento degli organismi vaticani, o più ampiamente il cosiddetto “mondo vaticano”, e la comunicazione con il cosiddetto “mondo esterno”. E ciò in un tempo in cui, come ben sapete, l’intensità e la rapidità della comunicazione, della diffusione delle notizie, si sono molto sviluppate e accelerate, anche grazie alle nuove tecnologie. In particolare con lo sviluppo della Rete il flusso delle informazioni è continuo e capillare e le onde d’urto causate dalle breaking news di maggiore impatto si diffondono in tempi brevissimi. Lo ho sperimentato più volte sulla mia pelle.

Ma aldilà dell’apprendimento dei modi adatti per reagire al rapido cambiamento delle dinamiche della comunicazione, vi è un processo più profondo e sostanziale in cui mi sono sentito coinvolto lavorando nella Sala Stampa negli anni recenti e su cui vorrei riflettere con voi, ed è quello delle attese di “trasparenza”, che caratterizzano la cultura di oggi, soprattutto in alcune parti del mondo, in misura sempre maggiore, a proposito di eventi e problematiche in alcuni campi di grandissimo impatto nell’opinione pubblica e quindi nella comunicazione globale. Lo ho potuto sperimentare anzitutto nelle questioni che si sono poste riguardo agli abusi sessuali e alla legalità nell’attività economica e finanziaria. Si è trattato di un duro banco di prova per la Chiesa, che è costato e continua a costare difficoltà e sofferenze, e che ha visto le istituzioni mediatiche e fra esse in particolare la Sala Stampa in prima linea.

Per quanto riguarda la vicenda degli abusi sessuali su minori da parte di membri del clero, o nell’ambito e nelle istituzioni della Chiesa, è chiaro che la pressione mediatica è stata una componente importante della spinta verso una profonda revisione degli atteggiamenti comunicativi sui problemi degli abusi, sulla loro gravità, sulla revisione delle norme in materia, sui procedimenti in corso, e infine sulle iniziative di risposta e prevenzione.

La pressione mediatica è stata sperimentata molto concretamente nella Sala Stampa, con richiesta frequente di risposte; e nella stessa Sala Stampa ci si è impegnati molto per un’informazione corretta e obiettiva, per dare ragione delle prese di posizione dei Papi e dei loro incontri con vittime di abusi, delle linee di azione e delle normative della Congregazione della Dottrina della Fede, per mettersi in rapporto collaborativo con gli Uffici di comunicazione delle Conferenze episcopali coinvolte in questa problematica, fino a collaborare attivamente nell’organizzazione di un Convegno per i rappresentanti delle diverse conferenze episcopali all’Università Gregoriana nel febbraio 2012, e ora a seguire con attenzione il decollo della nuova Commissione istituita da Papa Francesco per la protezione dei minori. Bisogna accompagnare risolutamente il passaggio fondamentale dall’atteggiamento di sola difesa – o ancor più da eventuali atteggiamenti di “copertura” - a quello della cultura attiva della prevenzione. Papa Benedetto ha parlato varie volte del cammino di purificazione della Chiesa rispetto a questi segni orribili della presenza del male al suo interno. Devo testimoniare che trovarsi in prima linea sul fronte della comunicazione permette ed esige di sentirsi coinvolti in un modo molto profondo in questo cammino, e di parteciparvi cercando di pagare anche con la propria sofferenza personale un piccolo contributo al prezzo immenso che la Chiesa deve pagare, con umiltà e con speranza, in questo cammino di purificazione e redenzione.

Ecco un settimo messaggio: essere pronti, in solidarietà con la comunità della Chiesa, a pagare il prezzo spesso doloroso della crescita nella verità.

Un altro banco di prova eccezionale della trasparenza comunicativa in argomenti delicati e difficili è stata la vicenda del “maggiordomo” che aveva trafugato documenti riservati dall’appartamento del Papa. A dire il vero non mi sarei mai immaginato di dover gestire la informazione giornalistica di una istruttoria e di un processo penale in Vaticano, comprese le udienze in Tribunale, le sentenze, il periodo di carcerazione del reo, fino – per fortuna – alla conclusione con la grazia concessa dal Papa. L’interesse della stampa internazionale era naturalmente altissimo, per l’eccezionalità della vicenda. Devo dire di aver avuto un’ottima collaborazione da parte della Magistratura vaticana nel trovare i criteri adatti per l’accesso dei giornalisti, la pubblicazione delle sentenze, e così via. Collaborazione tanto più essenziale per me in quanto la Segreteria di Stato – che normalmente è la nostra guida – era in questo contesto assolutamente discreta, volendo evitare ogni minima ombra di interferenza sull’autonomia della Magistratura dello Stato della Città del Vaticano.

Senza entrare qui nella valutazione del procedimento giudiziario e dei suoi esiti, che non ritengo da trattare in questa sede, devo dire con una certa soddisfazione di non aver sentito lamentele particolari, che la vicenda giudiziaria processuale non fosse stata seguita in modo trasparente dal punto di vista informativo.

Un campo ulteriore in cui sono molto cresciute le esigenze di trasparenza rivolte al Vaticano e in generale alla credibilità della Chiesa, è quello dell’amministrazione e dell’attività economica. Anche su questo fronte la Sala Stampa si è sentita impegnata, in particolare nel seguire e dar conto dell’inserimento nel sistema dei controlli internazionali delle amministrazioni facenti capo alla Santa Sede e alla Città del Vaticano. E poi vi è stato tutto l’importante capitolo dell’impegno sviluppato dalla dirigenza dello IOR, guidata dal Presidente von Freyberg, che ha avviato la pubblicazione del rapporto annuale sul Sito dell’Istituto, ha dato una serie di interviste e informazioni per contribuire a superare coraggiosamente l’atmosfera di chiusura, segretezza e sospetto che circondava l’Istituto. Qui bisogna notare che la Sala Stampa non ha gestito in prima persona questa attività comunicativa dello IOR, che è stata opportunamente affidata ad un’agenzia specializzata, con la quale però ci si è mantenuti in continuo contatto, coordinamento e collaborazione. E’ giusto osservare che la Sala Stampa con le risorse attuali non è in grado di gestire da sola la comunicazione di questioni di natura tecnicamente complessa e deve quindi integrare continuamente il suo servizio con il supporto delle competenze più specializzate.

Non vi è chi non veda quanto sia difficile e complesso questo cammino, sia per la delicatezza della materia trattata, sia per la frequenza delle interpretazioni negative, che generano naturalmente e continuamente reazioni di difesa nelle istituzioni interessate. Personalmente ritengo però che sia una via obbligata, da continuare a percorrere con gradualità e coraggio per il bene della credibilità della Santa Sede e della Chiesa. Naturalmente ciò non dipende dalla Sala Stampa se non in misura molto parziale, ma certo non può avvenire adeguatamente senza la sua collaborazione.

Insomma, la Sala Stampa è stata per me un luogo cruciale in cui sperimentare concretamente – e direi esistenzialmente – il crescere della domanda di trasparenza del funzionamento delle istituzioni, che è domanda generale nel mondo di oggi, ma anche rivolta specificamente alla Chiesa e alle istituzioni vaticane. Ed è anche luogo in cui si sperimenta la capacità o incapacità delle istituzioni stesse di crescere in questa direzione, in rapporto a difficoltà oggettive e soggettive. E’ chiaro che l’impulso dato dal Papa Francesco in questa direzione è molto potente, aiuta a superare resistenze e permette di godere di un clima generale più favorevole nell’opinione pubblica, che consente di affrontare con più slancio le difficoltà.

E allora l’ottavo messaggio sarà: dobbiamo considerare normale – sempre più normale – saper rendere conto onestamente delle questioni amministrative e giudiziarie delle nostre istituzioni. Fa parte della credibilità della Chiesa.

Ma l’evento più recente su cui vorrei riflettere ancora un poco con voi - venendo ai giorni di Papa Francesco -, è il Sinodo straordinario dei Vescovi sulla famiglia, che ci ha occupati moltissimo nel mese di ottobre e di cui si è molto parlato anche dal punto di vista della comunicazione.

In un evento di questo genere il rapporto fra ciò che avviene all’interno dell’Assemblea e la sua dinamica interna, e ciò che ne viene conosciuto e detto all’esterno, è sempre complesso e delicato.

Si tratta infatti di un processo di riflessione da parte di un gruppo che ha una sua responsabilità ecclesiale, che vive una esperienza di ricerca spirituale comune in un’atmosfera che deve essere caratterizzata dall’ascolto reciproco e dalla preghiera. Ciò significa conservare una certa libertà da influssi e stimoli estranei alle finalità e alle caratteristiche del Sinodo stesso, come sono spesso quelli che giungono attraverso l’attività dei media.

Allo stesso tempo è positivo che vi sia un interesse e una partecipazione della più ampia comunità ecclesiale allo svolgimento del Sinodo stesso e anche della comunità umana circostante, che ritiene importante il modo in cui la Chiesa valuta e affronta questioni rilevanti nella vita della gente, come sono quelle della famiglia. E’ il Papa stesso che ha voluto mettere in cammino un processo sinodale coinvolgente per l’intera comunità ecclesiale, e quindi non ci si deve stupire che proprio nei momenti più salienti di questo processo l’interesse diventi molto alto e ci si attendano forme di comunicazione che permettano di partecipare in qualche modo a ciò che avviene.

Fin dai tempi del Concilio Vaticano II si è sperimentato che il nuovo rapporto che la Chiesa ha voluto stabilire con il mondo si rifletteva necessariamente in una vivace problematica sulla informazione di ciò che avveniva nei dibattiti e nella dinamica dell’assemblea conciliare. Esiste tutta una letteratura su questi argomenti, e naturalmente vi sono valutazione diverse degli esiti; valutazioni che spaziano da quelle che inneggiano alla “apertura” rispetto a una “chiusura” iniziale, a quelle che tendono a parlare di alterazioni di prospettiva e di accenti che si ritrovano nel cosiddetto “Concilio dei media”.

Il problema non sarà mai risolto pienamente. Le soluzioni vanno cercate nella vita e nella esperienza concreta della Chiesa. Dal punto di vista dei giornalisti la comunicazione sarà sempre insufficiente, poiché per il loro lavoro l’ideale è la pubblicità totale di tutti i momenti ed eventi. Ma dal punto di vista di chi porta responsabilità nella Chiesa e vuole poter fare un cammino di riflessione e discernimento ecclesiale comunitario - e non di dibattito assembleare per far prevalere una posizione ideologica o politica -, una pressione e quasi intromissione permanente dei media – non omogenea alla natura del processo di discernimento – viene perlopiù sentita come limitazione della libertà di dialogo e di espressione e quindi non accettabile.

Nel recente Sinodo straordinario i due punti principali che in questa prospettiva sono stati oggetto di discussione sono: da una parte la non pubblicazione sistematica da parte del nostro servizio di informazione dei testi né di sintesi scritte dei singoli interventi dei Padri sinodali, e la voluta non indicazione di “chi aveva detto che cosa”; dall’altra invece la pubblicazione completa del testo della “Relazione dopo il dibattito”, che era un testo intermedio e provvisorio nel cammino sinodale. Non è qui il caso di entrare nei dettagli e di spiegare i vari motivi delle linee adottate, i pro e i contra. Ovviamente si può continuare a riflettere e a discuterne, anche in vista del futuro.

Ma ora mi preme osservare che si tratta e si tratterà sempre di trovare continuamente una linea di mediazione e di interazione equilibrata e positiva fra il processo in corso nel corpo sinodale, e la sua comunicazione appropriata all’esterno – una comunicazione che sia veritiera nella sostanza – per chi è interessato nella comunità ecclesiale e in quella generale.

E’ questo il nono messaggio che mi premeva di dare dalla mia esperienza come comunicatore: vivere e custodire la natura specifica dell’essere Chiesa in cammino, e darne conto in modo tale che questo possa venir condiviso, ma non snaturato.

Il cammino sinodale è probabilmente l’impresa più impegnativa e di maggiore portata finora avviata dal Papa Francesco nel suo pontificato e ne esprime molto concretamente il carattere. Questo è dunque il punto in cui ora ci troviamo e da cui devo riuscire a rileggere il mio servizio come comunicatore ecclesiale. In questo tempo, in cui Papa Francesco ha dato un impulso così forte perché la Chiesa si metta in cammino senza paura, aldilà dei calcoli della sicurezza umana, affrontando sfide estremamente impegnative; in questo tempo appunto capiamo ancor più che in passato – io almeno lo sento così - che questa Chiesa “in uscita” deve fidarsi molto dell’accompagnamento del Signore e del suo Spirito, deve leggere nella fede i segni dei tempi, ciò che avviene, e sforzarsi di leggere nella fede, spiritualmente, la sua stessa dinamica interna. Mi pare che sia quanto il Papa ha inteso fare nel suo fondamentale discorso conclusivo nell’assemblea sinodale, esercitando quel “discernimento degli spiriti” di cui ci parlava Sant’Ignazio.

Prima ho detto che per capire profondamente il messaggio di una persona e saperlo ridire bisogna amarla molto. Ma questo vale anche per la comunità della Chiesa. Quella Chiesa che Sant’Ignazio amava chiamare, al termine degli Esercizi Spirituali, - nelle “Regole per sentire con la Chiesa”-: “la nostra Santa Madre Chiesa gerarchica”. Espressione oggi certo inusuale, ma che ogni tanto Papa Francesco riprende intenzionalmente, per dire con forza una realtà allo stesso tempo spirituale e concretamente istituzionale.

Allora anche la comunicazione nella Chiesa, della Chiesa e sulla Chiesa, se vuole esprimere effettivamente ciò che sta succedendo, deve imparare ad alimentarsi in modo nuovo di spirito di amore e di fede, se no può solo descrivere delle vicende esteriori senza capirne il significato, né aiutare a capire.

Insomma: missione della Chiesa e comunicazione sono strettamente unite per natura fin dalle origini. Devono esserlo anche oggi nella vita del comunicatore credente. Lo sto vivendo con molta intensità nel corso di questo pontificato, che è riuscito a rimettere in questione tanti aspetti della nostra vita e del nostro lavoro. Vi lascio questo come decimo e ultimo messaggio.








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