2014-11-05 15:22:00

La Cei a Gaza. Card. Bassetti: vicini a chi cerca la pace nella paura


“La speranza c’è, ed è come un filo d’erba nel deserto”: è l’immagine che il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, usa per descrivere la missione di due giorni nella Striscia di Gaza e in Israele della Presidenza della Cei, guidata dal cardinale presidente Angelo Bagnasco, i tre vicepresidenti – lo stesso cardinale Bassetti, l’arcivescovo Cesare Nosiglia, il vescovo Angelo Spinillo – e il segretario generale, il vescovo Nunzio Galantino, invitata dal Patriarca Latino di Gerusalemme, Fouad Twal e rientrata in Italia ieri sera. La delegazione ha visitato i quartieri distrutti di Gaza, l’ospedale giordano e la scuola del Patriarcato latino. Ha celebrato nella parrocchia della Sacra Famiglia e poi ha fatto tappa a Sderot, nel sud d’Israele. Della missione parla il cardinale Bassetti al microfono di Francesca Sabatinelli:

R. – A Gaza non c’è la luce la sera, quindi passando fra le macerie al buio mi venivano in mente le tenebre bibliche, quando la Bibbia dice: “Le tenebre ricoprono tutta la terra”. E’ una città distrutta, tutta al buio. Questo buio poi naturalmente si riflette nella situazione concreta. L’unico motivo, veramente, che ti dà gioia e speranza sono questi bambini. Il 60% della popolazione è sotto i 25 anni e quindi è tutto un pullulare di ragazzi, di giovani, e i bimbi sono la festa del mondo anche tra le macerie. Questo è proprio il motivo di speranza e io l’ho visto, nei bambini, nelle scuole.

D. – Eminenza, avete incontrato la comunità parrocchiale di Gaza, molto piccola, stiamo parlando di circa 140 persone su un totale di un milione e ottocento mila abitanti, è veramente una goccia…

R.  – Ma questa goccia diventa il cuore pulsante di una città per le sue scuole: due scuole cattoliche che hanno forse più di 2.000 ragazzi. E poi le suore di Madre Teresa che accolgono i bambini: i bambini feriti, i bambini orfani, malati, portatori di handicap… Si vede proprio questa carità. E naturalmente i cristiani, in una massa che è tutta musulmana, sono proprio questo fermento bellissimo della presenza dell’amore di Dio, della carità della Chiesa, della promozione della Chiesa. E questo ti allarga il cuore. E naturalmente, poi, il cuore si stringe nel vedere le distruzioni e dici: “Ma, Signore, ma perché? Perché in sei anni deve essere accaduta questa cosa?”. Tre volte, in sei anni. Quello anche che mi ha colpito profondamente è vedere una grande città che praticamente è come se fosse tutto un carcere all’aperto. Ci sono questi muri altissimi, due porte soltanto di accesso: una dalla parte ebraica, l’altra dall’Egitto. Al mare non possono andare: avrebbero tutto un mare bellissimo davanti a sé. E quello che mi ha dato questo senso di disagio interiore è vedere una città-carcere. E allora mi venivano in mente le parole di Giovanni Paolo II poi ripetute dall’attuale Pontefice: “Abbattete tutti i muri e fate i ponti”. Basta con le città-carcere, con gli Stati-carcere e con la violenza reciproca.

D. – I cattolici, questa piccola comunità, vi hanno chiesto di essere portavoce di qualche loro richiesta?

R. – Sì. Naturalmente, alla celebrazione, la metà erano ortodossi – perché gli ortodossi sono più di 2000 – poi forse c’era qualche protestante, poi c’erano anche alcuni musulmani: tutti ci hanno detto che sentono questa vicinanza della Chiesa e particolarmente sentono la vicinanza di Papa Francesco.

D. – La Cei continuerà a sostenere economicamente i progetti?

R.  – Certo. Loro ce l’hanno chiesto e noi abbiamo detto: prima di tutto vi si porta la solidarietà della nostra Chiesa e del nostro popolo. Poi, siete cristiani: vi si assicura la nostra preghiera e naturalmente la carità e le opere.

D. - La vostra tappa a Sderot: stiamo parlando di un altro scenario, ma anche lì di uno scenario di paura…

R. – E’ un altro scenario, però è importante essere andati anche lì, perché lì abbiamo visto più gli effetti indiretti della guerra e là le distruzioni della guerra. Lì abbiamo visto per esempio la paura nei ragazzi: c’è un clima di insicurezza, suona continuamente l’allarme… Magari, poi, quel piccolo razzo va cadere in mezzo a un campo, però sempre c’è la paura che ti possa cadere addosso… Si è instillato questo clima di paura, di terrore, che è chiaro che non fomenta la pace. Invece, bisogna portare segni di pace lì perché altrimenti si va verso la distruzione totale, alla fine.

D. – Dopo aver parlato con i ragazzi, con i giovani di Sderot, dopo aver incontrato anche gli abitanti di Gaza, lei vede possibile veramente la comprensione tra questi due popoli, da sempre animati da tutt’altri sentimenti?

R.  – Secondo me, bisogna che i moderati di tutte le parti – e mi creda ci sono, ora io non faccio nomi – si mettano insieme per costruire la pace perché da una parte e dall’altra ci sono i “falchi” che non vogliono assolutamente la pace. Bisogna che il mondo riesca a incoraggiare questi moderati e bisognerà che arriviamo proprio al riconoscimento chiaro dei due Stati. Bisogna proprio costruire la pace, riconoscersi a vicenda e non vivere nel progetto di distruggersi gli uni con gli altri.








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