2014-11-04 18:57:00

Usa: elezioni di metà mandato. Favoriti Repubblicani. Prova decisiva per Obama


Negli Stati Uniti giornata decisiva per il presidente Obama e la sua Amministrazione: si vota oggi per elezioni politiche di metà mandato. Favoriti secondo i sondaggi i repubblicani all’opposizione. Il servizio di Roberta Gisotti

Prime urne aperte alle 6 locali, le 12 in Italia, nei primi otto Stati orientali dell’Unione, a seguire i centrali, mentre gli ultimi seggi chiuderanno in California alle 5 italiane di domani e alle 6 in Alaska e nelle Hawaii. 206 milioni gli statunitensi chiamati al voto, di cui solo 145 milioni finora iscritti alle liste elettorali. Le consultazioni di metà mandato attraggono infatti un elettorato poco numeroso, si prevede intorno al 40 per cento sul totale, composto più da repubblicani i favoriti, rispetto ai democratici. Da qui l’appello di Obama: “non ci sono scuse - ha detto - per non votare”. Del resto il presidente Usa è ai minimi storici di popolarità: da diversi mesi solo 4 cittadini su 10 lo sostengono. Dalle urne uscirà rinnovata l’intera Camera dei Rappresentanti, un terzo del Senato, 36 governatori e numerose amministrazioni locali. Voto di cruciale importanza perché potrebbe dare ai repubblicani il controllo del Congresso e limitare i poteri di governo del presidente Obama. Forse per questo si è speso come non mai nella storia degli Stati Uniti per queste elezioni di metà mandato: 3,68 miliardi di dollari, 1,9 miliardi i repubblicani, 1,7 i democratici.  In 12 Stati anche quattro quesiti referendari: legalizzazione della marijuana, diritto all’aborto, aumento salario minimo, obbligo di etichetta su alimenti Ogm. Per gli exit pool e i primi risultati bisognerà attendere le 19 locali, l’una di questa notte in Italia.

 

Ma quali saranno i temi a pesare sull’esito del voto? 

Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale all’Istituto di Studi Politici di Parigi:

R. – In una certa misura pesa ancora un doppio retaggio, se vogliamo: il lungo retaggio dell’11 settembre e quello un po’ più corto, scatenato dalla crisi economica del 2007-2008. Da quella crisi gli Stati Uniti sono in parte usciti, ma non è questa la percezione che hanno l’opinione pubblica e l’elettorato. La preoccupazione, la paura per la sicurezza degli Stati Uniti, scatenata dall’11 settembre - innanzitutto quel che ne è seguito - è tornata ed è stata un poco riaccesa – diciamo così - dalla nuova crisi mediorientale, dalla vicenda dell’Is in Siria e in Iraq e anche dalla vicenda di ebola, trattata con una certa grossolanità dai media americani, che però ha alimentato paure nuove, che hanno riacceso, in una certa misura, le paure del post 11 settembre.

D. – Secondo lei, i democratici rischiano di perdere quell’elettorato particolarmente attento alla salvaguardia della vita, dopo le aperture del Presidente Obama su temi come l’aborto o altre questioni delicate di bioetica?

R. – Io credo che in quell’ambito Obama non vada a perdere quel che non aveva già perso. Credo che Obama perda il voto giovane, il voto delle minoranze, deluse da un Presidente che ritengono avesse promesso molto di più di quanto non abbia poi dato.

D. – Tornando ai temi di politica estera, il Partito Democratico potrebbe pagare la diminuita presenza americana sulle crisi mondiali più delicate...

R. – Credo che i repubblicani siano stati molto efficaci, durante la campagna elettorale, nello sfruttare questo quadro internazionale complicato, volatile, per denunciare la confusione, la fragilità, la debolezza dell’amministrazione. Un’amministrazione che sui temi di politica estera e di sicurezza aveva costruito un significativo consenso interno, che Obama sfruttò abilmente alle elezioni presidenziali del 2012. Quel capitale politico è andato rodendosi, perché - da parte repubblicana - il Presidente si è accusato di essere poco incisivo, confuso e debole, e perché su queste crisi l’amministrazione ha dato effettivamente messaggi contraddittori, spesso parlando in una pluralità di voci, con le quali il Presidente smentiva il Segretario di Stato o Hillary Clinton criticava il Presidente.

 








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