2014-10-31 14:26:00

30 anni fa moriva Eduardo De Filippo: intervista con Italo Moscati


Trent'anni fa moriva Eduardo De Filippo, attore, regista, poeta, commediografo. Italo Moscati ne ripercorre la vicenda umana e artistica nel volume "Eduardo De Filippo, scavalcamontagne, cattivo, genioconsapevole", edito da Ediesse. Rosario Tronnolone gli ha chiesto cosa abbia Eduardo da essere così tanto amato anche oggi:

R. - Userò una parola di vecchio sapore: la saggezza… Se noi vediamo i suoi film, le sue opere; leggiamo le sue poesie e le sue cose teatrali, ci accorgiamo che c’è una coerenza incredibile. Ad un certo punto della sua vita gli chiesero in una intervista quale fosse la sua intenzione in tutto questo lavoro, perché ha fatto tantissime cose. E lui disse: “Io cerco di intrattenere il pubblico, di divertirlo, di ricordargli una cosa che lo interessi, ma anche e questa è una mia scelta - diceva Edoardo - con un piccolo senso profetico”. Allora, l’intervistatore chiese cosa volesse dire “profetico”, in questo senso; lui rispose: “Che lo spettacolo non finisce, che c’è sempre un domani”. Quindi questo suo domani era improntato alla fiducia, al sentimento di qualcosa che verrà. Questo è quello che dice, senza spiegare di più. Però questo, secondo me, vedendo proprio adesso gli omaggi che gli stanno facendo, ci accorgiamo che viene preso come un punto di riferimento in un grande vuoto culturale, politico, anche ideologico ed etico. E’ un personaggio credibile, che la gente considera ancora tale.

D. - Uno dei capitoli si intitola “Eduardo e gli eduardiani”. Questa sorta di eredità, nel caso di Eduardo De Filippo, si è manifestata in molti casi quasi come una sorta di imitazione pedissequa del suo stile, del suo modo di parlare, del suo modo di porgere le battute… E’ un caso abbastanza particolare…

R. - Sì ed è perché è fortissimo Eduardo nella sua forma, nella sua interpretazione. Non dimentichiamoci che nel mondo dello spettacolo c’è una semina di eduardiani che fa impressione. Ci sono non dei seguaci, ma delle persone che prendono ispirazione dalla lezione di Eduardo e aggiungono del proprio: penso che questa sia la cosa più utile per la nostra cultura teatrale e spettacolare, che soffre molto per mancanza di punti di riferimento e non solo ideali, ma di interesse vero. Stiamo un po’ girando intorno ai nostri problemi e alla crisi italiana, ma una voce che in qualche modo si stacchi, in realtà, non esiste: lui certamente è un uomo del passato, ma i suoi stimoli hanno ancora grande validità.

D. - C’è un aggettivo che mi ha colpito nel titolo, quel “consapevole”, proprio perché il genio - e spesso il genio è anche teatrale, è il genio dell’artista che recita - è spesso una sorta di inconsapevolezza. Invece Eduardo aveva questa consapevolezza…

R. - Sì! Sia negli incontri che ho avuto con lui, di cui riferisco nel libro, sia anche negli spettacoli che ho visto, lui aveva il tono del maestro e l’autorevolezza che lui sentiva dentro di sé gli dava questa consapevolezza sempre critica, perché poi non è che la sua mimica tradisse un coinvolgimento: non era un imbonitore. Parlava e diceva le sue idee sempre con un dubbio, in una battuta, in un sorriso, in una smorfia del volto: il suo volto - devo dire - irradia atteggiamenti profondi, cioè un’anima. Quindi quell’anima veniva da questa sua mimica straordinaria, dal mondo come aggrottava gli occhi… Il personaggio io l’ho chiamato “consapevole” perché aveva profondamente conoscenza di come usare questi suoi mezzi ed arrivare al suo obiettivo, che non era quello di convincere o di edificare, ma era quello di parlare di un qualcosa che lui aveva sperimentato. Le parole, per esempio, che lui scrive - anche nelle poesie sulla felicità - sulla morte sono fondamentali: mai tremende, mai esclusivamente negative. Hanno sempre qualcosa, forse quel profetico di cui abbiamo parlato all’inizio.








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