2014-10-15 13:04:00

Ebola, dramma dell'Africa: testimonianza di Domenico Quirico


Il virus Ebola "sta correndo più  veloce di noi": lo ha detto nella sua relazione il capo missione Ebola dell'Onu, confermando le previsioni dell’Oms secondo cui, con questi ritmi di diffusione, all’inizio di dicembre il numero di nuovi contagi potrebbe salire a 10 mila la settimana. Resta alto l’allarme in America, dove risulta un nuovo caso in Texas, e in Europa che chiede ai Paesi più colpiti, Guinea, Liberia e Sierra Leone, di rafforzare i controlli in uscita. Per ora, dicono inoltre fonti Ue, non si tratta di pandemia. Domani, a Bruxelles, vertice per fare il punto della situazione, ma gli allarmi che arrivano dall’Occidente non devono oscurare il dramma che sta vivendo la popolazione africana come racconta, al microfono di Cecilia Seppia, il giornalista della Stampa, Domenico Quirico, da poco rientrato dalla Sierra Leone:

R. - Ho visto un Paese già fragile, appena uscito da una lunga guerra civile, dove le infrastrutture e le strutture della società sono deboli, sfilacciate e in qualche caso inesistenti. È uno dei Paesi più poveri del mondo, si vive con un euro al giorno... Un Paese completamente stravolto dalla pestilenza nelle sue abitudini più comuni, nella sua struttura sociale, nella sua economia… È veramente un luogo-cimitero, sul quale l’epidemia di Ebola è passata come un uragano sconvolgendo le abitudini quotidiane, la socialità, gli strumenti del rapporto con gli altri, addirittura all’interno delle stesse famiglie, con madri che non parlano, non toccano i figli.

D. - Secondo l’Oms, il numero dei casi di contagio potrebbe salire a 10 mila la settimana entro l’inizio di dicembre nei tre Paesi più colpiti. Quindi, al di là dell’esportazione del virus, forse dovremmo concentrarci sul dramma che stanno vivendo questi Paesi che sembra non arrestarsi…

R. - Dovremmo soprattutto concentrarci sul dramma di questi Paesi anche per un’ottica puramente utilitaristica, nel senso che se non si ferma la pandemia - se non la si fa scendere nei numeri fino a isolarla per poi spegnerla come un incendio - può diventare una catastrofe mondiale. Ma questa è una forma di approccio a questo problema che purtroppo noi occidentali non riusciamo a lasciarci dietro. In fondo, Ebola è qualcosa di cui ci ricordiamo solo quando iniziamo a preoccuparci che qualcuno non arrivi all’aeroporto contagiato. Un approccio di tipo - mi si permetta - “manzoniano”, ma non nel senso punitivo della parola, ma nel senso della sua assenza di scientificità e soprattutto del suo cinismo, del suo egoismo, della sua meschinità.

D. - Morti, isolamento coatto di interi villaggi, crisi umanitaria ma anche economica, con il Pil di questi Paesi in picchiata per almeno i prossimi due anni secondo le previsioni e con l’export di cacao fermo…

R. - L’economia sta precipitando ogni giorno. L’unica ricchezza della Sierra Leone sono le miniere, non soltanto di diamanti ma anche di bauxite, di ferro… Questo in un momento in cui il Paese è scollegato da tutto il resto del mondo, i collegamenti sono sempre più radi e la gente non va a lavoro. I prezzi sono aumentati di tre volte perché nessuno ha più il coraggio di andare al mercato a vedere. Non c’è più nessuno che compra. Questo, in una società - ripeto - in cui si vive con un euro al giorno, può significare il passaggio dalla miseria alla carestia. Faccio un semplice esempio: la quarantena. Una persona viene chiusa in casa, perché c’è stato un caso sospetto. Da noi, la quarantena significherebbe restare chiusi in casa con la luce elettrica e acqua. La maggior parte degli abitanti della Sierra Leone non dispongono né di una, né dell’altra. Come fanno a stare in quarantena? Chi gli porta da mangiare? Chi provvede a sfamare tutta la gente che è rinchiusa e che non può uscire per andare a fare le sue povere faccende, cercare di procurarsi il cibo ogni giorno?

D. - Oltre alla questione economica, mi viene in mente quella dei bambini: c’è stato il blocco delle adozioni di bimbi poveri e in difficoltà, ovviamente, che vengono da quelle zone. Anche questo è un risvolto terribile di Ebola…

R. - Certamente. Ma ne richiama subito un altro. Le scuole sono chiuse da giugno e non riapriranno se non forse in primavera. Questo in un Paese dove la guerra civile ha tenuto le scuole chiuse per anni e anni. Queste catastrofi passano su una generazione dopo l’altra. Queste generazioni saranno segnate per sempre dall’assenza di scolarizzazione, dalla miseria, dalla paura, dalla sensazione di fragilità.

D. - Guardando invece di nuovo all’Occidente, domani ci sarà il vertice a Bruxelles dei ministri della Sanità europei. Ricordiamo che in Europa ci sono diversi casi isolati, perlopiù si tratta di personale medico rientrato dall’Africa, così anche in America. Diciamo però che forse più di allarmismo, di protezionismo dei propri confini, in questo summit bisognerà decidere come aiutare queste popolazioni. Qualcosa si sta già facendo, però forse è poco, serve un’azione concertata…

R. - Il vero grande problema è la mancanza di personale medico, anche specializzato. Per isolare la malattia, bisogna affrontarla sul suo campo, cioè spezzare la catena del contagio. E per fare questo, ci vogliono Centri di trattamento dove deve lavorare il personale specializzato. Questa è un’epidemia estremamente costosa. Faccio un piccolo esempio: ogni giorno ci vogliono da cinque ad otto tute protettive per ogni malato e i contaminati sono migliaia. Allora, bisogna cercare di intervenire su questi problemi, anche perché il tempo è poco. Se nelle prossime otto settimane a massimo non ci sarà una regressione della malattia, la dimostrazione pratica, numerica, del suo contenimento, questo rischia di diventare un problema ancora più terribile, ancora più universale.








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