2014-10-11 12:30:00

Violenze Boko Haram in Camerun: il Pime assiste i profughi


I miliziani islamici nigeriani di Boko Haram hanno liberato nelle ultime ore 27 ostaggi, tra cui 10 operai cinesi e la moglie del vicepremier camerunense, sequestrati nei mesi scorsi in un’azione che dalla Nigeria aveva visto gli estremisti sconfinare nel nord del Camerun. In quella zona ad aprile erano stati rapiti anche due missionari di Vicenza, poi liberati. Non distante si trova pure Chibok, località nigeriana dove in primavera i jihadisti avevano catturato oltre duecento studentesse, la maggior parte delle quali ancora nelle mani dei combattenti. Proprio nel nord del Camerun, la Fondazione Pime Onlus ha avviato un progetto di assistenza per 12 mila rifugiati e sfollati, che cercano di sfuggire alle violenze. Il responsabile è fratel Fabio Mussi, missionario laico del Pime, coordinatore della Caritas della diocesi di Yagoua. Giada Aquilino lo ha intervistato:

R. – Da circa un anno e mezzo i Boko Haram hanno cominciato ad uscire dai confini della Nigeria, per inserirsi anche in Camerun, con l’idea di costruire a tutti i costi un califfato islamico, fino all’Etiopia e alla Somalia con gli Shabaab. Questo progetto, quindi, ha portato all’invasione di alcune regioni, soprattutto dell’estremo nord del Camerun, vicino al lago Ciad, dove noi lavoriamo come diocesi, al confine con la Nigeria.

D. – Quali azioni compiono i miliziani islamici in queste zone?

R. – E’ proprio un’azione di occupazione e razzia. Solo le persone che si adeguano alle loro ideologie vengono rispettate, le altre vengono cacciate. Inoltre da una parte c’è l’esercito nigeriano che bombarda, per cercare di arrestare questa avanzata, e dall’altra, in Camerun, c’è l’esercito camerunense che cerca di contrastare l’invasione.

D. – C’è, quindi, un continuo flusso di profughi dalla Nigeria, ma anche di sfollati interni al Camerun?

R. – Esatto. Attualmente il punto più caldo è nella zona di Fotocol, proprio al confine tra la Nigeria e il Camerun.

D. – In che condizioni vivono queste persone, che sono costrette a lasciare tutto e a fuggire?

R. – Sono arrivate in Camerun e, nelle scorse settimane, hanno occupato tutte le scuole che, in quel momento, erano ancora libere, perché non era cominciato l’anno scolastico. Si sono quindi accampate in parte in questi edifici pubblici, in parte presso famiglie locali o parenti.

D. – La Fondazione Pime Onlus ha lanciato un progetto di assistenza per 12 mila persone, che si trovano nel nord del Camerun, tentando di sfuggire alle violenze e alla crisi. Di cosa si tratta?

R. – Si tratta di un intervento di emergenza a vari livelli. Innanzitutto, a livello alimentare, per dare almeno una razione alimentare settimanale a queste 12 mila persone, che sono poi state scelte tra 40 mila profughi, secondo un criterio di vulnerabilità: in pratica abbiamo scelto di occuparci di seimila bambini, tremila donne e altri tremila tra anziani e ammalati; tenendo conto che i numeri sono alti, dobbiamo cercare di fare in modo che quelle risorse che possiamo trovare siano utilizzate al meglio. Abbiamo poi scelto di occuparci dei settori sanitari e quindi assicurarci che ci sia una visita o qualche intervento a livello curativo. L’altro campo d’intervento è quello idrico, per avere acqua pulita, perché altrimenti saremmo invasi sicuramente dal colera, se non da altre malattie simili. Infine, vorremmo intervenire anche nei servizi igienici.

D. – Cosa raccontano queste persone della loro realtà?

R. – Quello che mi hanno raccontato alcuni testimoni è che, quando sono arrivati nel villaggio di Bargaram, in Camerun, per trovare i viveri, visto che dall’altra parte ne trovano pochi per il momento, questi miliziani di Boko Haram hanno radunato le persone, soprattutto quelle cristiane, hanno scelto coloro che non ritenevano collaborativi e li hanno sgozzati davanti a tutti: davanti alle mogli e ai figli. Sono rimasti, dunque, traumatizzati e abbiamo cercato di capire come aiutarli, per farli tornare ai villaggi d’origine. Ma oltre agli aspetti fisici, bisognerebbe pensare anche all’aspetto psicologico di questa gente.

D. – E allora voi come missionari, insieme alla Chiesa locale, come infondete speranza a queste persone?

R. – Nel concreto, cioè cercando di aiutarle in questa situazione: riaprendo le scuole, dando ai bambini una possibilità di andare a frequentare regolarmente, cercando in questo modo di pensare al futuro e a dove poter ricollocare questa gente.








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