2014-09-26 14:05:00

Blasfemia: sempre più a rischio la vita dei cristiani nelle prigioni pakistane


In Pakistan si registra l’ennesima vittima delle legge sulla blasfemia. Questa volta si tratta del pastore cristiano, Zafar Bhatti. L’uomo, noto per il suo impegno a difesa delle minoranze e del dialogo interreligioso, era detenuto in carcere in attesa di processo in quanto accusato di un episodio di blasfemia. Ad uccidere il pastore un agente della prigione che ha ferito un altro prigioniero condannato a morte con la stessa accusa. Bhatti, dopo due anni di carcere preventivo, avrebbe dovuto presentarsi in tribunale di primo grado oggi. Sulla vicenda, Marco Guerra ha sentito il prof. Mobeen Shahid, docente alla Pontificia Università Lateranense e segretario dell’associazione dei Pakistani Cristiani in Italia:

R. – Il pastore Zafar Bhatti si è dedicato con tutto il suo impegno anche coinvolgendo la famiglia, per la difesa delle minoranze religiose del Pakistan, cercando anche di costruire ponti per il dialogo con i musulmani, che sono la maggioranza della nazione; ma è stato accusato di blasfemia proprio per danneggiare l’uomo che difende i cristiani perseguitati del Pakistan, perché le correnti fondamentaliste – in questo caso la Sunni Etihad – ritengono che chi difende un accusato di blasfemia sia a sua volta blasfemo. Allora, fu impiantata una cospirazione per accusarlo di blasfemia e alcuni carcerati l’avevano anche minacciato. Ora non è stato ancora verificato se è coinvolta la polizia o meno …

D. – Quindi, anche in carcere chi è accusato di blasfemia rischia la vita?

R. – In realtà, la polizia in prigione dovrebbe difenderli, ma non riesce a gestire la situazione perché in questo momento circa 5.000 poliziotti, quelli di Islamabad e quelli di Rawalpindi, sono impegnati per la sicurezza della Camera dei Deputati, perché due partiti stanno facendo le manifestazioni lì. Quindi, la polizia stessa in questo momento è indebolita nel numero dei propri dipendenti. Però il carcere dovrebbe provvedere al minimo necessario di sicurezza, specialmente per i casi di accusati di blasfemia: infatti, non è il primo caso in cui l’accusato viene ucciso in carcere. Si dovrebbe provvedere ad una adeguata sicurezza di queste persone. Ora noi – pakistani cristiani insieme altre associazioni che sono nostri amici – vogliamo anche chiedere alla comunità internazionale di aumentare la pressione internazionale affinché ci possa essere la cancellazione della legge sulla blasfemia, o che si possa provvedere ad una procedura che permetta la verifica del fatto e anche la sicurezza perché si rischia di essere uccisi ancora prima di arrivare in tribunale!

D. – Ma chi uccide queste persone, in carcere? Altri carcerati?

R. – Essenzialmente, alcuni che sono stati gonfiati d’odio dai fondamentalisti o dagli ulema, che promuovono la cultura della religiosità che odia.

D. – Si conosce una stima di quante persone, in Pakistan, sono in carcere perché colpite dall’accusa di blasfemia?

R. – Ora, questo lo dico in via informale, nel senso che io ho i dati della Commissione internazionale Giustizia e Pace, ma non ce l’ho sottocchio, per cui non saprei dirle il numero esatto. Ma esistono delle stime: sono all’incirca oltre duemila.

D. – Tutto il mondo conosce il caso di Asia Bibi. Come sta la 49.enne mamma cattolica, dopo 1.500 giorni di prigionia?

R. – Asia Bibi più che mai ora è tesa, proprio perché ha saputo della morte del pastore Zafar Bhatti in prigione, e immaginiamo cos’altro potrebbe succedere ad Asia Bibi: potrebbero farla fuori facilmente, essendo peraltro una donna e in un carcere femminile. Teniamo presente che aveva già ricevuto minacce da parte delle altre prigionieri e a livello psicologico e fisico non sta nelle migliori condizioni, perché è troppo tempo che sta in prigione. Io chiedo maggiore sicurezza per Asia Bibi e non solo per Asia Bibi: per tutte le persone imprigionate con l’accusa di blasfemia che quotidianamente, 24 ore su 24, rischiano di essere uccise proprio per mano dei fondamentalisti e non si sa chi, quando e come verrà per ucciderle. Questi atti, infatti, sono ben programmati perché non è possibile uccidere un prigioniero in carcere, senza il coinvolgimento delle autorità competenti.








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