2014-09-03 15:53:00

Gaza, il foto reporter Longari (AFP): "Il nostro rischio più alto è la responsabilità di raccontare"


"E’ stato un anno terribile per la comunità dei giornalisti. E' che ciò che noi rappresentiamo diventa una spina nel fianco in persone che hanno perso il lume della ragione. Ormai la qualità dell’essere umano è talmente scaduta in alcuni angoli del mondo che chi invece come noi è lì per raccontare l’umanità, è per loro fumo negli occhi. Insomma, più uno cerca di dare un volto umano alle cose che succedono, più la barbarie aumenta e il volto umano viene sfregiato con atti riluttanti". Marco Longari, foto reporter italiano, 48 anni, lavora per l'Agence France-Presse (AFP), considerato tra i migliori al mondo nel suo campo. Ha vissuto a lungo a Gerusalemme, e da poche settimane ha lasciato Gaza dove era tornato a documentare la guerra. Lo raggiungiamo telefonicamente in Sudafrica, all'indomani della decapitazione, per mano dell'Isis, del giornalista statunitense Steven Sotloff e nel giorno in cui è appreso dell'uccisione in Ucraina del fotografo Andrei Stenine (agenzia di stampa russa Ria Novosti), scomparso dal 5 agosto, 

Più grande è l’effetto shock se minima è la distanza tra carnefice e vittima. "Ormai questa distanza non c’è più", spiega Longari. "Più si entra nel rapporto uno a uno più l’effetto aumenta. La teatralità è ai massimi. Diventa tutto un videogioco. La realtà è ormai una finzione e non c’è più limite. Il vero dramma è questo. E’ impossibile mettere un freno alla circolazione dei video in rete. Il problema è che ciascuno deve appellarsi alla propria umanità e decidere se cliccare su quel link oppure no. Osservare la decapitazione di un giornalista per la mano di un brigante qualunque presuppone una responsabilità. Bisogna sapere che facendo clic dai spazio dentro di te a quel cancro che questa gente cerca di diffondere. Trovo criminale la foto di Foley sbattuta su tutti i giornali in prima pagina. Ma purtroppo ciò corrisponde alla deriva in cui vivono alcune testate giornalistiche, che invece dovrebbero essere l’ultimo bastione di una comprensione logica delle cose. Non c’è nulla di umano nel mettere la foto di Foley in prima pagina con il coltello alla gola". 

Marco Longari conosceva molto bene Simone Camilli, il giornalista dell’Associated Press, ucciso a Gaza durante un’operazione di sminamento. "Abbiamo condiviso tante esperienze di lavoro. Simone era tutelato dall’agenzia per cui lavorava. Ma quante volte sulla stampa vengono pubblicate foto di colleghi che scompaiono prematuramente e tragicamente sul lavoro e fino a quel momento si era assolutamente all’oscuro della loro esistenza e del loro lavoro! Mi spiace quando viene strumentalizzato un incidente, un rapimento, la morte. Celebrare la loro assenza quando fino ad allora sono stati rifiutati dalle redazioni o ignorati è triste". 

Tendenza tipica del giornalismo italiano? "Siamo uno dei pochissimi paesi al mondo a non mettere i crediti sotto le foto. Abbiamo una tradizione di professionisti assolutamente degni di questo nome, che fanno questo lavoro seriamente. L’Italia è la culla di un certo tipo di fotogiornalismo. Eppure in Italia le fotografie sui giornali ci stanno come i semafori nelle strade, per dirti dove devi girare la pagina. Non c’è uno spazio intelligente per l’informazione fotografica. D’altra parte non c’è nemmeno una cultura di ricercatori iconografici".  

Trovarsi nel posto giusto, perché notiziabile, è il rischio continuo cui uno come te si sottopone. Come si fa a fidarsi sul campo senza rischiare di essere traditi? "Non bisogna pensare che questo lavoro sia semplicemente esporsi ai rischi. Da un alto è una cosa importante da sapere per cui bisogna calcolarlo il rischio di rimetterci la pelle. Ma questa non è l’essenza del lavoro. L’essenza è andare vicino alla gente e raccontare le storie. Questo presuppone che ci si assuma a priori un certo rischio. Ma il rischio non è tanto la bomba che ti può cadere sopra la testa bensì prendersi la responsabilità di raccontare. Il pressapochismo cui accennavo è proprio evitare di assumersi questo rischio, che è davvero il più alto di questo mestiere".

Cosa prova un reporter di fronte a un soldato, a chi uccide ed è pagato per farlo, di fronte a chi semina strage? "E’ sicuramente più complicato perché bisogna riuscire a passare la frontiera, il limite fra te e lui. Per le vittime tu diventi il testimone della loro sofferenza. Diventare invece il testimone della responsabilità di uccidere è più difficile. Nel 2000 ero in Rwanda dove iniziavo la mia carriera di fotografo. Mi trovavo nelle prigioni dove erano detenuti i responsabili del genocidio del ’94. Cosa racconto ora, mi chiedevo? Allora mi sono ricordato semplicemente che alla fine siamo sempre dei cronisti e che dobbiamo raccontare le cose come stanno. La questione non è l’empatia ma mettere in stand by la propria indignazione e raccontare la storia dell’altro, tenendo conto che nessuno è mai totalmente innocente o totalmente colpevole. Raccontare quel momento lì, in cui le cose nella vita di qualcuno prendono un’altra direzione, è questa l’essenza del nostro lavoro. Così come quando sono tornato a Gaza per questa guerra e ho visto il livello inaudito di devastazione - per cui per i primi giorni non sono riuscito a lavorare – poi mi sono rimboccato le maniche, ho messo da parte la rabbia e ho fatto il cronista". 

Reggerà la tregua? "Questa tregua non va da nessuna parte. Purtroppo le due parti in causa hanno bisogno l’una dell’altra. C’è una rigidità da tutte e due le parti che produrrà sicuramente un’altra escalation di violenza. Non credo che la tregua sul terreno possa considerarsi risolutiva. La chiesa latina a Gaza ha aperto le porte ai rifugiati che avevano perso tutto. Le foto della preghiera del venerdì di fronte alla croce della chiesa latina sono importanti, soprattutto se guardate alla luce della follia irachena. E allora pensi che un’altra comprensione delle cose è possibile. E’ vero le guerre tirano fuori il peggio dell’umanità ma è vero anche che ad alcuni livelli le distruzioni così estreme tirano fuori anche il bello della gente, in termini di solidarietà, di aggrappamento alla vita. E allora è una ventata d’aria fresca, cose belle da vedere".








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