2014-08-02 13:43:00

Ebola, un missionario in Sierra Leone: "Prevenzione difficile"


Ebola sta mettendo in ginocchio l’Africa Occidentale: di oggi la notizia di un’altra vittima in Liberia, tra i paesi più colpiti insieme a Sierra Leone e Guinea. Oltre 700 le vittime accertate dall’inizio della diffusione a dicembre. Ieri l’allarme dell’Organizzazione mondiale della Sanità sulla rapidità di diffusione del virus e l’intervento del presidente americano Obama che ha ammesso: la minaccia va presa seriamente. Arrivato oggi negli Stati Uniti uno dei due medici colpiti dal virus in Liberia, subito ricoverato in isolamento in un ospedale di Atlanta.nIntanto per tutelare la sicurezza di passeggeri ed equipaggio, la compagnia aerea Emirates ha sospeso tutti i voli verso la Guinea. Per una testimonianza sulla situazione, Davide Maggiore ha raggiunto telefonicamente in Sierra Leone padre Carlo Di Sopra, superiore dei Missionari Saveriani nel Paese:

R. - Il processo è questo: la gente, prima di tutto, è incredula. Pensa secondo le voci che circolano. All’inizio, era un “dire comune” che questa cosa qui non esistesse e quindi non si sono prese precauzioni. Nelle nostre chiese, siamo stati un po’ i primi a sospendere le riunioni, a parlarne, a prendere per esempio delle precauzioni, a diluire varecchina in acqua per lavarsi le mani all’entrata delle chiese e delle case… Siccome questo virus si contagia con il contatto, abbiamo anche abolito lo scambio del segno della pace in chiesa, incoraggiando poi la gente a essere prudente anche nei contatti. Un po’ alla volta sta entrando questa mentalità di difendersi. Il 31 luglio scorso, il presidente ha dichiarato lo stato di emergenza. E meno male, perché con questa presa di posizione adesso speriamo che la gente sia veramente più attenta, perché l’unica maniera di fermare questo virus è cambiare alcuni comportamenti, che sono anche culturali.

D. - Quindi, c’è una difficoltà ad abbandonare queste pratiche?

R. - E’ veramente molto difficile, perché qui la vicinanza - soprattutto nella famiglia - è una cosa essenziale. Quando qualcuno sta male, la prima cosa che si fa è andare a trovarlo. Non è come da noi che quando qualcuno sta male, si chiude in stanza… Loro hanno bisogno di sentire la vicinanza delle persone, della famiglia prima di tutto e poi della loro comunità. Con l’ebola non è possibile fare questa cosa. Quindi, anche chi si ammala ha il terrore dell’isolamento. Anche al momento del funerale c’è il lavaggio del corpo e poi la vicinanza: sono cose che loro veramente vivono… E’ difficile cambiare questi comportamenti. La gente non capisce e da lì vengono fuori tante storie, che fanno sì che subentri il terrore e che la gente vada a nascondersi e preferisca andare nei villaggi all’interno della foresta… Così il contagio si propaga. C’è da dire che c’è poco personale e gli ospedali non sono pronti per questo, hanno una stanza dove possono mettere i malati. In tutta la nazione c’è un centro solo, a Kenema, nel sud, dove fanno questi esami.

D. - E’ capitato che le persone si rivolgessero ai guaritori tradizionali, alle autorità tradizionali. Per vincere queste resistenze culturali, non si potrebbe cercare di lavorare anche con queste particolari figure?

R. - Adesso lo stanno facendo, però è una cosa molto complessa. La comunicazione è scarsa, la televisione non c’è… Sensibilizzare la gente qui è molto, molto difficile perché devi parlare anche la lingua: sono in tanti villaggi, in posti nascosti. Quindi è veramente molto, molto difficile raggiungere un po’ tutti. Molti sono scappati addirittura dagli ospedali o sono stati presi dai familiari e portati da questi guaritori…








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