2014-07-22 13:29:00

Medio Oriente: Kerry al Cairo per trovare una tregua. Continuano gli attacchi


Continua la crisi in Medio Oriente, nel giorno degli incontri al Cairo tra il segretario di Stato americano, John Kerry, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e il presidente egiziano, Sisi, per cercare di fermare gli attacchi. Kerry ha incontrato anche il segretario della Lega Araba, che ha espresso la “speranza” che si possa giungere “molto presto” a un cessate il fuoco.Intanto, nuovi bombardamenti israeliani su Gaza mentre Hamas lancia razzi su Tel Aviv. Il servizio di Michele Raviart:

Sono sforzi “appropriati e legittimi” quelli di Israele di difendersi, ma c’è "inquietudine" per la sorte dei civili a Gaza. Così in sintesi il segretario di Stato americano, John Kerry, che ha prolungato di un giorno la sua visita al Cairo e per trovare soluzioni alla crisi. Intanto, nella notte, gli Stati Uniti hanno deciso di stanziare 47 milioni di dollari di aiuti a Gaza, 15 all’agenzia Onu per i rifugiati e 32 all’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale. Mentre non parte la tregua umanitaria proposta dall’Onu, continuano i raid su Gaza. Sette palestinesi sono stati uccisi in una serie di bombardamenti al sud e al centro della Striscia, mentre migliaia di persone stanno fuggendo dai quartieri nord di Sheikh Zajed e Tel Zaatar. Suonano intanto le sirene d’allarme a Tel Aviv, dove un razzo di Hamas è stato intercettato dal sistema antimissile "Iron Dome" mentre raggiungeva l’area metropolitana della città. Sette invece i razzi intercettati diretti ad Ashdod. Con la conferma della morte di un soldato rapito da Hamas, il bilancio, al sedicesimo giorno di conflitto, è di 28 militari israeliani uccisi, mentre le vittime palestinesi sono 605.

 

Meri Calvelli è una cooperante italiana, da anni vive a Gaza. Ha vissuto altre operazioni israeliane contro Gaza, compresa quella finora più drammatica, tra il 2008 e il 2009, denominata "Piombo Fuso". Ciò che sta accadendo in questi giorni però, spiega al microfono di Francesca Sabatinelli, è completamente diverso. Ascoltiamola:

R. – Ci sono delle grosse differenze. In genere, gli attacchi militari sono sempre stati una punizione collettiva su questa popolazione. A oggi, la popolazione di Gaza è arrivata ad un punto di non più accettazione della situazione attuale, quindi dopo anni e anni di embargo, di chiusura delle frontiere, di prigione nella quale è costretta a vivere, a far nascere e, purtroppo, far morire i propri bambini, non è più disposta ad accettarlo. Quindi, questa operazione militare è iniziata in un modo e invece sta andando avanti in un altro, sta diventando un vero e proprio confronto, anche sul terreno, anche a livello di guerra, anche se le forze militari sono completamente diverse. Però, la differenza è che c’è una risposta dall’interno, a livello militare, che nel passato non si era mai verificata così forte. Quello che vedo è che sì, è vero, loro stanno facendo un confronto militare, però la gente tutta ti dice: morivamo. Stavamo morendo, dentro Gaza! Non avevamo prospettive, non avevamo futuro davanti a noi. Quindi, se moriamo stando qui, chiusi qui dentro come topi, o se moriamo in guerra, a noi non cambia niente: sempre morte è. Di fatto, la realtà è che sono stati uccisi soltanto civili, colpite strutture che sono civili. Da quando, poi, è iniziata l’operazione di terra, hanno incominciato anche dal confine, con i cannoni, con l’artiglieria, a non smettere mai di sparare. Lungo tutti i confini della Striscia di Gaza. E chiaramente, davanti ai confini ci sono le case.

D. – Questo è quello che è accaduto domenica scorsa a Shejaiya, dove ci sono state oltre 90 vittime civili…

R. – Shejaiya sì, che è stata la prima parte a nordest, la prima parte a essere attaccata dall’artiglieria, dai cannoni, dalle forze di terra, è stato il primo massacro grosso. A distanza di due giorni, si scava nelle macerie ma non si riesce nemmeno a scavare, perché continuano i bombardamenti e quindi non viene data la tregua per andare lì. Se ti avvicini a quel sito ti sparano, immediatamente: continua a sparare l’artiglieria, continuano a bombardare da sopra. Si sente una puzza di morte incredibile, oltre alle 90 persone, ai loro corpi tirati fuori dalle macerie, purtroppo ce ne saranno anche chissà quanti altri.

D. – Ci sono persone che non hanno voluto abbandonare le case, ma ce ne sono tanti che stanno cercando riparo…

R. – Certo, certo. Se all’inizio sono rimasti e sono morti, purtroppo, lì dentro, come è successo a Shejaiya, altri, nelle notti seguenti, quando hanno continuato pesantemente dopo l’esempio di Shejaiya, hanno chiaramente cominciato a scappare dalle case. Ormai, si parla di 150 mila sfollati lungo tutto il confine. Tra l’altro, per fare un esempio, la gente sta dentro le strutture dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia dell’Onu per il soccorso ai profughi) però non ha i materassi per dormire, non ha dove dormire, quindi sta lì, in piedi o sui seggiolini o per terra magari con una coperta che sono riusciti a portarsi dietro.

D. – Dal punto di vista strettamente medico-sanitario, manca tutto, però Israele ha appena rifiutato una tregua umanitaria…

R. – Sì, sì, questa mattina, appunto, avrebbe dovuto esserci questa tregua di cinque ore – se ne parlava da ieri sera – ma all’ultimo momento Israele l’ha rifiutata. I medicinali, certo, gli ospedali li richiedono dall’inizio dell’operazione, perché i feriti sono stati subito moltissimi. Quindi, certo, c’è tutta la questione sanitaria. Ma anche la questione igienico-sanitaria è un altro dei problemi grossi, la mancanza dell’acqua. Oltretutto, è un’operazione militare che ha messo in pericolo non poco anche la stessa popolazione di Israele, l’esacerbarsi di questa situazione, come si vede, ha creato questo braccio di ferro fortissimo tra le due autorità e adesso nessuno vuole cedere, anche perché – ripeto – qua la gente non vuole più tornare indietro, ormai ha pagato talmente alto il prezzo, purtroppo è quello che ti dice, che vuole andare avanti affinché la situazione cambi realmente, perché Gaza dev’essere aperta.

D. – Come state vivendo, voi?

R. – Ci sono i droni che ronzano tutto il giorno, ci sono i passaggi aerei, c’è la marina che spara a seconda dei momenti... Ecco, adesso questo non so se lo sentite, è il drone: sta qua sopra. Ora tra un po’ gira che ti rigira, poi sgancia da qualche parte.  Poi, è chiaro, ci sono zone più colpite e altre che sono meno colpite. Quando vai in giro, eh, vai a tuo rischio e pericolo. In questo momento in particolare, poi, nonostante all’inizio abbiano detto: “Ah, ma noi staremo attenti ai civili, staremo attenti alle agenzie che si muovono, staremo attenti ai giornalisti”, solo parole! Bisogna assolutamente far pressione sui nostri governi e i nostri governi devono fare pressione, assolutamente devono far pressione su Israele, per fermare il massacro dei civili.

 

John Kerry torna quindi in Medio Oriente, dopo il fallimento, quest’anno, dell’iniziativa diplomatica di pace tra Israele e Autorità palestinese. Ma cosa può fare la comunità internazionale per questa crisi? Lo abbiamo chiesto a Ianiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente:

R. – C’è una situazione di vuoto diplomatico internazionale, entro cui si inserisce questa crisi. Probabilmente, sarebbe utile l’iniziativa dell’Unione Europea, una volta che si è assestata la sua politica estera, che come sappiamo è un po’ travagliata, per ripartire da dove John Kerry si era fermato: da quella proposta di accordo quadro, che però non aveva avuto l’assenso delle parti. Ripartire da lì, da un’intesa con gli Stati Uniti, non in antitesi a loro, e avanzare una proposta anche in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu.

D. – L’incontro tra Kerry e la Lega Araba, in questo senso, che significato può avere?

R. – La Lega Araba in questo momento è controllata dall’asse Egitto-Arabia Saudita, che è un'asse certamente non molto favorevole ad Hamas. Infatti, quello che è abbastanza significativo è il silenzio di tutti questi Paesi, rispetto a quello che sta succedendo. Al di là di qualche dichiarazione formale.

D. – Qual è oggi il rapporto di Hamas con il mondo arabo?

R. – Hamas è in crisi perché gli è venuto a mancare l’appoggio egiziano, con la caduta di Morsi e la venuta al governo del presidente Sisi, che ha messo fuorilegge i Fratelli musulmani, di cui Hamas è una costola. L’Egitto resta comunque un Paese chiave, perché controlla i valichi e ha un peso rispetto a Gaza. Non ha più rapporti positivi con l’Iran. Gli resta un po’ di appoggio del Qatar e della Turchia, ma non è che sia sufficiente. Così come l’Egitto non è ben visto da Hamas, Qatar e Turchia non sono però ben visti da Israele. L’elemento possibile di sblocco potrebbe essere proprio il presidente palestinese, Mahmud Abbas.








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