2014-07-17 14:46:00

Rom: il cardinale Vallini, superare la logica dei campi


“Cercate di volervi bene innanzitutto tra voi, come il Signore fa con i suoi figli. Qui siete cattolici, ortodossi, musulmani: siate capaci di pregare l’uno per l’altro, riconoscendo Dio come nostro unico padre”. Ad affermarlo è stato mercoledì pomeriggio il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, incontrando gli abitanti del campo rom “La Barbuta”, vicino l’aeroporto di Ciampino. Fabio Colagrande gli ha chiesto come sia stato accolto:

R. – Come in tutti i campi che visito, dove sono questi fratelli e sorelle poveri ed emarginati, devo dire molto bene: con molto piacere, con molta gratitudine per questa visita e insieme anche con il desiderio di avere qualcuno che si interessi di loro, al di là di quella opportunità che viene offerta dalle istituzioni di avere un campo che di per sé sarebbe anche abbastanza dignitoso. E’ l’idea stessa di campo che andrebbe superata… Comunque, quello è uno dei migliori campi: ci sono delle casette attrezzate anche se purtroppo ormai comincia il degrado pure lì, perché non c’è il ritiro dei rifiuti, non c’è più la vigilanza…

D. – La logica dei campi, purtroppo, è quella della segregazione, dell’emarginazione: è questo ciò che va superato?

R. – Io non uso questi termini così forti di segregazione voluta; però, certo, si sentono degli emarginati, si sentono abbandonati. Le istituzioni, in particolare il Comune, spendono tanti soldi per accogliere queste persone nei campi, che esistono nelle categorie di vigilati, tollerati e abusivi. Questo era uno dei vigilati, però adesso non c’è più la vigilanza. E questo comporta certamente che mettere insieme tante etnie, anche tra loro in lotta nei Paesi di origine, fa sì che le relazioni non siano semplici. Bisognerebbe superare la logica dei campi, cioè pian piano inserire queste persone con una inclusione sociale che parta dal lavoro, relativo alla regolarizzazione del loro permesso di soggiorno. E poi pian piano entrare, come tutti, nelle graduatorie di chi ha diritto, secondo il rispetto delle norme, ad avere anche – un domani – la possibilità di una casa e forse anche di essere inseriti in altre attività lavorative. Noi, come diocesi, ci abbiamo provato con qualcosa di molto piccolo, simbolico, ma efficace: da tre anni abbiamo dato vita ad un Atelier Rom – così si chiama – in cui insegnamo l’arte della sartoria a delle mamme, le quali incominciano a fare qualche attività redditizia e remunerativa. E’ chiaro che è un’attività molto piccola però, per noi, rappresenta almeno un segno.

D. – E’ vero che queste persone hanno difficoltà a trovare lavoro a causa dello stigma che grava su di loro?

R. – E’ vero. Ho incontrato persone che hanno detto: “Io lavoravo; avendo saputo che ero uno zingaro – questo è il termine che hanno usato: a me non piace, questa espressione – mi hanno mandato via”. Non so se poi nei fatti corrisponda a verità, però a me è stato detto questo. E’ anche vero che questi fratelli e sorelle rom che girano per la città talvolta non si fanno accogliere per i loro comportamenti abusivi, di piccoli furti, eccetera. Tutto questo non aiuta. Però, c’è una cultura che non incoraggia l’inclusione sociale. Ed è quello che dobbiamo cercar di far superare: la comunità ecclesiale di Roma si impegna abbastanza, a questo riguardo.

D. – Come è stato l’incontro dal punto di vista umano? Quali parole ha rivolto loro?

R. – Molto cordiale, molto affettuoso: tutti ti vogliono offrire il caffè, i pasticcini… e sono felici di farlo, naturalmente! Poi, capita sempre che a qualcuno si cerchi di dare una mano com’è possibile. Quindi, molto molto buono.

D. – Un campo come “La Barbuta” rappresenta una di quelle periferie di cui parla spesso il Papa?

R. – Certamente. E’ una delle periferie; non è la peggiore, perché è un campo nel quale vivono 800 persone. Abbiamo campi più grandi. Certo, è una periferia e noi a settembre incominceremo un lavoro pastorale più diretto; la presenza della Chiesa lì è molto apprezzata.

D. – Come facilitare, dunque, l’inclusione di rom e sinti nella capitale? Quale atteggiamento deve avere nei loro confronti la popolazione della città e quale atteggiamento dovrebbero avere queste etnie, per facilitare l’incontro?

R. – Innanzitutto, bisognerebbe incominciare a livello di istituzioni a favorire la legalità e quindi a favorire, per esempio, la regolarizzazione dei permessi di soggiorno. E poi, ripeto, con iniziative anche piccole per favorire una cultura dell’accoglienza: per esempio, la scolarizzazione dei figli, incoraggiarla in ogni modo e offrire anche occasioni di piccole iniziative lavorative. E’ un lavoro che dovremmo fare un po’ tutti. Noi, come comunità cristiana, ci impegnamo. Lo stiamo facendo ancora poco, faremo ancora di più. Speriamo che anche tutte le altre istituzioni possano fare la loro parte.








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