2014-07-01 10:28:00

Appello dell'Aibi: guardare ai bimbi migranti come ai nostri figli


Due miliardi di dollari è la cifra che il presidente americano Obama ha chiesto al Congresso per fronteggiare l’emergenza immigrazione dal Messico. A preoccupare sono i circa 60 mila minori non accompagnati che passano il confine statunitense ogni anno, spinti dalla disperazione e nella speranza di un futuro migliore. Un fenomeno che interessa la Siria, sconvolta dalle violenze, con 740 mila bambini che fuggono verso il Libano e la Giordania, la Repubblica Centrafricana con 23 mila piccoli diretti in Camerun ma anche l’Italia come sottolinea, al microfono di Benedetta Capelli, il presidente di Aibi, Amici dei Bambini, Marco Griffini:

R. – Dal gennaio 2014, ormai, sulle coste italiane sono arrivati ben 6 mila minori stranieri non accompagnati. Quindi, senza neanche andare fino nel continente americano, questo è un problema che riguarda noi: ormai siamo entrati in piena crisi, in questo ambito. Pensate che solo nei primi quattro mesi di quest’anno abbiamo raggiunto il numero totale dell’anno scorso … Quindi, è un problema che va affrontato, secondo me, con due strumenti. Uno, prepararsi – qui in Italia – all’accoglienza: questi sono minori e purtroppo noi in Italia non abbiamo ancora una cabina di regia capace di mettere insieme tutte le forze della società civile, delle associazioni per dare a questi minori un’accoglienza che sia giusta, che sia a misura di ragazzo, a misura di bambino. Noi, all’indomani del grande naufragio di ottobre 2013, proprio seguendo le parole di Papa Francesco, abbiamo lanciato un appello, e pensate: 1.300 famiglie hanno risposto aprendo la loro casa, ma mancando questa cabina di regia, solamente dieci famiglie hanno avuto questi minori, gli altri sono ancora tutti nei campi. L’altro discorso, invece, va fatto all’estero: questi minori sono minori che purtroppo devono emigrare per problemi di guerra o perché non hanno una speranza nel futuro; però, se ci fosse uno strumento come – per esempio – l’affido internazionale, e avendo noi – come tutte le diverse organizzazioni non governative – basi in questi Paesi, come in Siria, in Tunisia, in Marocco, in Libia, nei Paesi centroafricani, si potrebbero fare viaggiare questi minori in tutta sicurezza da famiglia a famiglia e, una volta inseriti nella famiglia affidataria italiana, avviare con loro un programma di formazione. Una volta che abbiano studiato e si siano formati, possono anche rientrare nel loro Paese …

D. – Il presidente Obama chiederà al Congresso due miliardi di dollari per attuare nuove misure nell’accoglienza dei bambini. Il leader americano, infatti, è abbastanza preciso: appena si arriva al confine, c’è la possibilità di portare questi bimbi nei centri oppure vengono affidati a famiglie americane che tendenzialmente li adottino, oppure c’è un ricongiungimento parentale. Però, questo sistema è messo in discussione. Secondo lei, questo iter che è stato applicato dagli Stati Uniti può essere un buon punto di partenza?

R. – Sì. Noi, tra l’altro, l’abbiamo anche studiato con attenzione, tant’è vero che abbiamo avviato questo progetto che si chiama “Da famiglia a famiglia”: è proprio l’accoglienza in una famiglia italiana. Poi, bisogna vedere se magari questi minori hanno parenti in qualche parte dell’Europa, allora si accompagna il minore proprio dalla famiglia alla famiglia di arrivo. La soluzione familiare non è la migliore: è l’unica soluzione che è adatta e che rispetta il supremo interesse del minore. Io ho avuto modo di parlare con alcuni ragazzi eritrei: mi hanno parlato come da figlio a padre, esponendo la situazione di questi ragazzi di 15-16 anni la cui unica alternativa è la fuga. Mi dicono: “Lei cosa avrebbe fatto per suo figlio?”, sapendo che qua comunque si va a morire in guerra, e questi padri e queste madri raccolgono i soldi e fanno rischiare la vita a questi minori pur di garantire loro un futuro. Ecco che allora l’affido internazionale potrebbe essere uno strumento proprio per evitare rischi di morte a questi minori e trattarli come se fossero i nostri figli.

D. – In questi anni, secondo lei è cambiata la cultura dell’accoglienza? Proprio dall’Italia, da Lampedusa in particolare, sono giunti molti esempi di grande maturità in tal senso …

R. – Lampedusa è il simbolo di questa accoglienza … faccio solo un esempio molto significativo. Il primo affido familiare di un minore straniero non accompagnato è stato una famiglia di Lampedusa. Questo è molto significativo. Questa famiglia ha messo a disposizione la propria casa, e questo esempio è stato seguito da altre famiglie per cui noi a Lampedusa abbiamo una ventina di famiglie pronte ad accogliere eventuali minori stranieri che sbarcassero nell’Isola.








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