2014-06-24 09:00:00

Meriam è libera: Sudan annulla la condanna a morte per apostasia


Sono in corso e “già a uno stadio avanzato” i negoziati perché Meriam Yahia Ibrahim Ishag possa lasciare il Sudan, insieme con il marito e i due figli: lo dicono all'agenzia Misna fonti della nunziatura apostolica a Khartoum, all’indomani della liberazione della giovane cristiana condannata a morte il mese scorso per apostasia. Al momento, riferiscono dalla capitale sudanese, Meriam si trova “in un luogo sicuro che non è né un’ambasciata europea né quella degli Stati Uniti”. Una precisazione dovuta, sembra di capire, anche alla luce del ruolo decisivo che Washington ha avuto per la risoluzione della vicenda.

Nei giorni scorsi la Commissione nazionale per i Diritti umani sudanese aveva parlato di “sentenza in contrasto con la Costituzione, che prevede la liberta' di culto”, facendo intuire che una decisione sul caso fosse imminente. Ieri la sentenza e' stata annullata dalla Corte d'appello. La donna lo ricordiamo, si trovava nel carcere di Khartoum con Maya, la figlia da poco partorita e il figlio Martin, di 20 mesi. Per la sua liberazione era stata indetta una mobilitazione internazionale con il coinvolgimento di autorità civili e religiose di tutto il mondo per invocare il rispetto della libertà religiosa e la necessità di dialogo. La prima a dare la notizia della liberazione di Meriam, via twitter è stata Antonella Napoli presidente della Onlus Italians for Darfur che ha seguito la vicenda e la mobilitazione internazionale che ne è nata. Gabriella Ceraso l’ha intervistata:

R. – C’è stato l’annullamento della sentenza di primo grado e, quindi, Meriam è una donna libera. E’ un precedente importante, perché delimiterà anche il futuro dei margini entro cui la sharia potrà essere applicata. Viene sancito, infatti, che non potranno più essere emesse sentenze per condanne a morte per apostasia, visto che c’è una Costituzione che prevede la libertà di culto.

D. – Il Sudan quindi garantisce libertà religiosa...

R. – La Costituzione finora prevedeva che ci fosse libertà di culto, ma nel caso in cui ci fosse stato un cambio di religione da parte di un musulmano, poteva essere applicata la sharia, e quindi la condanna a morte. Con questa sentenza, cambia qualcosa nel diritto. E questo è molto importante per i tanti cristiani in Sudan, come in tante altre realtà del mondo, che spesso sono vittime di persecuzioni.

D. – Noi non sappiamo, però, le sue condizioni né che cosa ha dovuto subire...

R. – Di sicuro le condizioni di vita non erano ottimali. Io, però, voglio essere ottimista: ci auguriamo che si lascino questa brutta pagina alle spalle e che possano ricominciare presto una nuova vita. Se così non fosse, vorremmo tanto che il nostro Paese potesse accoglierli. Se l’Ambasciata americana non garantisse il supporto, affinché possano tornare negli Stati Uniti con Daniel Wani, che – ricordiamolo – è cittadino americano, mi piacerebbe che ci fosse un gesto da parte del governo italiano: che il presidente del Consiglio e il ministro Mogherini si facciano avanti e si dicano pronti ad accogliere Daniel, Meriam e i loro bambini.

D. – Pensi che la campagna internazionale, che ha visto partecipare autorità sia religiose che civili, in appelli continui, abbia avuto un peso?

R. – E’ stata fondamentale, tanto che lo stesso Daniel, il marito, ha ringraziato molto i media e le organizzazioni, Avvenire, voi di Radio Vaticana, che avete supportato questo caso.








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