2014-06-19 21:21:00

Iraq: Obama esclude soluzioni militari per il Paese del Golfo


“Non c’è una soluzione militare per l’Iraq”: così il presidente americano Obama intervenendo in diretta tv e annunciando l’invio nel Paese di 300 consiglieri militari. Non si escludono operazioni mirate contro gli jihadisti dello Stato islamico in Iraq e nel Levante ma gli Stati Uniti non torneranno nel Golfo per combattere. Il servizio di Benedetta Capelli:

Barack Obama è chiaro e deciso. Dopo aver consultato i suoi uomini, annuncia in tv che le truppe americane non torneranno a combattere in Iraq dopo aver pagato un conto importante in termini di vite umane e di risorse. Il presidente statunitense passa dunque la palla agli iracheni ma non si sottrae a fornire aiuto contro gli jihadisti. Già deciso l’invio di altri 300 soldati in veste di consiglieri militari e che quindi non avranno compiti di combattimento, che si affiancheranno ai 275 marine mandati a proteggere la sicurezza dell’ambasciata americana. Per Obama resta determinante la capacità del premier iracheno Al Maliki di unire le varie anime del Paese superando le divisioni interconfessionali che finora l’hanno spaccato. Un ruolo lo potrà giocare anche l’Iran ma solo se convincerà Al Maliki ad iniziare un processo inclusivo. Infine il capo della Casa Bianca ha assicurato che, prima di effettuare un intervento armato in Iraq, si "consulterà con il Congresso, i leader iracheni e quelli della regione". Nel fine settimana il segretario di Stato, John Kerry, sarà in Medio Oriente e in Europa per coordinare gli sforzi diplomatici.

Ma quali gli obiettivi dell’Isis, che in questo momento sembra stia combattendo contro tutto e contro tutti? Giancarlo La Vella ne ha parlato con Andrea Plebani, ricercatore dell’Ispi e docente di Storia delle civiltà e delle culture politiche all’Università Cattolica:

R. – Si trova a combattere contro tutti, perché di fatto in Siria l’Isis combatte formalmente parte dell’insurrezione che si oppone a Bashar al-Assad. Però, ha anche intensificato la propria contrapposizione con le altre formazioni dell’insurrezione siriana e addirittura con la cellula di al Qaeda presente in loco. C’è stata una frattura molto forte: al Qaeda ha espulso lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante dalla galassia qaedista. In Iraq, invece, deve far fronte alle forze lealiste vicine al premier al Maliki e deve far fronte potenzialmente ai peshmerga, i guerrieri, le forze di sicurezza curde, situate a nord, e che sono indicate come molto più capaci rispetto alle forze di sicurezza irachene. Ma deve far fronte anche in prospettiva a una forte frammentazione del fronte insurrezionale del nordovest iracheno, perché seppure ora stia collaborando con altri gruppi, gli obiettivi di medio e lungo periodo di queste formazioni sono profondamente diversi.

D. – Quale può essere ora l’obiettivo della comunità internazionale di fronte a un gruppo che sta distruggendo anche la cultura e la tradizione irachena?

R. – La comunità internazionale deve intervenire non solo contro lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria, ma anche a favore dell’Iraq, a favore di uno Stato che, comunque, esiste da oltre 90 anni, uno Stato che ha dimostrato di poter esistere e di poter favorire la convivenza fra le sue diverse comunità. Uno Stato che, però, deve essere radicalmente rinnovato rispetto a quello che abbiamo visto sorgere dopo il 2003 e anche, ovviamente, rispetto a quello antecedente al 2003: uno Stato fondato su basi comuni, con un’identità che deve essere ricostruita, con delle dinamiche che devono essere ridiscusse e ridefinite, perché quello che abbiamo visto dal 2003 in avanti è, in realtà un esperimento, se non fallito, quantomeno con fortissime crepe. E’ necessario, quindi, pensare all’Iraq su base nazionale, non più su base etno-settaria e ridefinire completamente le dinamiche locali.








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