2014-06-13 19:59:00

La preoccupazione del Papa per le nuove violenze in Iraq


Papa Francesco “segue costantemente gli sviluppi della situazione in Iraq ed è vicino alla sofferenza di quelle  popolazioni. A farlo sapere è stata la Nunziatura apostolica nel Paese del Golfo. Preoccupazione e vicinanza è stata espressa anche dal prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il card. Leonardo Sandri. E intanto sul terreno si aggrava il conflitto. I militanti jihadisti continuano ad avanzare soprattutto nel nord, colpendo le basi dell’esercito ormai allo sbando. Mentre infuriano gli scontri, costati la vita, secondo l’Onu, a centinaia di persone, il governo mette a punto un piano per proteggere Baghdad dall’avanzata dei ribelli. Preoccupazione nella comunità internazionale, con il presidente Obama che parla di possibili strategie per fronteggiare l’avanzata dei miliziani. Sentiamo Giancarlo La Vella:

Negli ultimi giorni le persone uccise in Iraq sarebbero centinaia e i feriti almeno un migliaio. Lo riferisce il portavoce dell'Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani: la denuncia parla di esecuzioni sommarie di civili e soldati da parte dei jihadisti. Isis, questo l’acronimo che identifica il gruppo ribelle, che sta mettendo a ferro e fuoco il nord iracheno, ovvero Stato islamico dell'Iraq e del Levante; una sigla già resa tristemente nota dalle cronache siriane. Probabile obiettivo del movimento qaedista creare una vasta zona in cui operare contro i moderati islamici e contro l’occidente. Un programma che sta destando preoccupazione nella comunità internazionale. Il presidente americano Obama sottolinea: “Gli Stati Uniti "non si impegneranno in azioni militari" in Iraq in assenza di un piano politico da parte degli iracheni, dai quali – afferma il capo della Casa Bianca – dipende esclusivamente il futuro del Paese". Non escluso, e non solo da parte Usa, però l’aiuto al governo iracheno. L’avanzata dei miliziani sta avendo ricadute disastrose sulla situazione umanitaria: circa 40 mila persone hanno abbandonato Tikrit e Samarra, teatro delle ultime offensive e controffensive, che si aggiungono, secondo l'Osservatorio internazionale per le migrazioni di Ginevra al mezzo milione di profughi che già sono fuggiti da Mosul, prima città a cadere nelle mani dei miliziani martedì scorso. Imperativo primario la difesa della capitale Baghdad, forse il vero obiettivo dei ribelli.

L’avanzata dei jihadisti su Baghdad prosegue anche grazie ad appoggi interni e allo sfaldamento dell’esercito che non è in grado di rappresentare la comunità nazionale irachena. Lo conferma al microfono di Cecilia Seppia, Alberto Negri, esperto dell’area del Sole 24 Ore:

R. – C’è un’azione “a tenaglia”, di accerchiamento della zona di Baghdad e della capitale. Se il loro obiettivo è quello di prenderla, probabilmente avranno anche degli appoggi interni. Ricordiamo che la stessa Baghdad ha dei quartieri sunniti molto vasti. La quinta colonna è stata molto utile per l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante soprattutto nel caso di Mosul. Qui c’è stato un appoggio interno: anche a Tikrtit, per esempio, c’è stato il sostegno degli ex basisti che hanno sfilato, portando i ritratti di Saddam Hussein e accogliendo, come sunniti, con favore l’avanzata dei jihadisti.

D. – Il governo ha messo a punto un piano proprio per difendere Baghdad: un piano denominato “La griglia protettiva di Baghdad”. Però, c’è una sproporzione di forza e comunque questi miliziani agiscono in modo decisamene incontrollato…

R. – Dunque, siamo di fronte a un doppio dramma in Iraq. Il primo è il fallimento militare – quello dell’esercito iracheno – che a Mosul, a Tikrit e in tutte le altre zone dell'offensiva jihadista si è sfaldato, liquefatto per un motivo purtroppo evidente: è un esercito che non è mai stato in grado di rappresentare la comunità nazionale irachena. C’è un errore di vecchia data: all’indomani del 2003, dell’occupazione americana, gli americani decisero di sciogliere l’esercito iracheno e da quel momento è andato perso uno dei simboli dell’unità nazionale. Il secondo è un fallimento di tipo politico, completamente in mano al primo ministro, a Nouri Al Maliki, che praticamente ha sbagliato tutta la politica nei confronti dei sunniti. Quando nel gennaio scorso è iniziata l’avanzata dei jihadisti nelle province sunnite di Falluja e di Ramadi, ha reagito con bombardamenti e con la violenza e questo gli ha negato il supporto della parte più moderata dei sunniti. Quindi, ha mancato di trovare una soluzione politica, un compromesso, che in qualche modo evitasse la soluzione militare.

D. – Ecco, a proposito di questo avanza l’ipotesi di un intervento militare degli Stati Uniti. Obama per il momento ha detto "no" all’invio di truppe. Però, ha anche detto che tutte le opzioni sono aperte. Si arriverà a questo?

R. – È mai possibile che gli Stati Uniti possano vedere sgretolarsi uno Stato di 35 milioni di abitanti, dove vengono prodotti oltre tre milioni di barili al giorno, con riserve stimate forse addirittura superiori a quelle dell’Arabia Saudita? Dopo aver occupato per nove anni questo Paese, perso migliaia di uomini e sperperato migliaia di dollari, se non intervenissero in qualche modo sarebbe davvero una perdita di credibilità eclatante!

D: – Da Teheran ha parlato anche il presidente iraniano, Rohani, che ha detto: “non permetteremo di esportare il terrore nei nostri confini”. Ovviamente, questa crisi irachena sta mettendo in subbuglio nuovamente tutta l’area…

R. – Certo, anche se ormai questo Iraq è stato diviso: a nord, il Kurdistan ormai se ne è andato per i fatti suoi, i sunniti stanno cercando di crearsi questa zona, questa sorta di califfato nella zona centrale dell’Iraq, gli sciiti a sud di Baghdad controllano la situazione e due terzi del petrolio. Gli iraniani sono certamente interessati a tenere delle posizioni per loro molto importanti: erano e sono alleati del governo di Al Maliki ma, allo stesso tempo sono impegnati sostenere Bashar Al Assad in Siria. Hanno quindi un doppio fronte a cui pensare.

 








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