2014-06-06 13:43:00

Sud Sudan. Speranze e cautele per la liberazione di Meriam


Continua la mobilitazione internazionale per la salvare la vita di Meriam Ibrahim Yahya Ishaq, la 27.enne condannata all’impiccagione, in Sud Sudan, per apostasia e a 100 frustate per aver sposato un cristiano. La donna si trova nel carcere di Khartoum con Maya, la figlia da poco partorita e il figlio Martin, di 20 mesi. La Chiesa locale continua a invocare il rispetto della libertà religiosa. Mons. Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso gli Uffici Onu di Ginevra, parla anche di necessità di dilago. Massimiliano Menichetti ha intervistato Antonella Napoli, presidente della Onlus Italians for Darfur che sta seguendo la vicenda:

R. – Sia lei che i bambini sono in sostanziale buono stato di salute. Certo, le condizioni di vita nel carcere non sono ottimali, soprattutto il bimbo un po’ più grande soffre, perché Maya ha pochi giorni, è sempre in compagnia o delle guardie carcerarie o con la mamma o con le altre detenute, quando c’è possibilità di prendere una boccata d’aria.

D. – Si sono registrate aperture del governo per la liberazione di Meriam, ma quanto inciderà questo sulla magistratura?

R. – I segnali positivi ci sono: il ministro degli Esteri, in un incontro pubblico, ha affermato che una soluzione è possibile e ha voluto ribadire che il governo non può intervenire direttamente, perché il potere giudiziario è un potere sovrano. Però, va ricordato che la Corte costituzionale potrebbe intervenire in quanto il Sudan prevede la libertà religiosa e quindi potrebbe venire meno l’impianto giuridico della sharia su cui si  è poi basata la sentenza.

D. – Anche se questo ha portato adesso ad una condanna!

R. – Sì e oltre ad essere stata condannata a morte per impiccagione per il reato di apostasia, non essendo riconosciuto il suo matrimonio con un uomo cristiano è stata anche condannata a 100 frustrate per adulterio. Anche questa pena però ora è sospesa, almeno fino a quando non ci sarà il giudizio d’appello...

D. – L’appello ci sarà fra circa due settimane…

R. – Tra 2-3 settimane. Però, è chiaro che potrebbe essere anticipato vista la grande pressione mediatica o ritardato per trovare effettivamente una soluzione, che noi ci auguriamo ci sia la scarcerazione e la libertà assoluta per Meriam.

D. – Se andasse male in appello, perché si aprono speranze sul verdetto della Corte Costituzionale?

R. – Lì i presupposti giuridici su cui si è basato questo procedimento, ovvero la sharia, dovrebbero cadere, perché la Corte costituzionale è un organo politico, più che giuridico.

D. – Quanto sta incidendo l’attenzione internazionale su questo caso?

R. – Tantissimo! Tutto è partito da un nostro appello, da un tweet… Questa immensa mobilitazione ha portato alla raccolta di quasi 150 mila firme, tra quelle raccolte online attraverso il nostro appello, le mail inviate direttamente all’ambasciata. E poi il supporto fondamentale di Avvenire, che ha subito rilanciato l’appello di "Italian for Darfur": il giornale ha ricevuto 78 mila adesioni. Con noi è ovviamente attiva anche Amnesty International, che ha fatto sì che venissero raccolte oltre 650 mila firme. A tutto questo va aggiunta anche l’azione dei governanti, come Cameron che ha manifestato fortemente la contrarietà per questa sentenza, definendola barbarica, e il presidente Napolitano.

D. – Voi ribadite: c’è soddisfazione, grande speranza, ma bisogna essere cauti…

R. – Bisogna essere cauti perché il contesto sudanese è molto complesso. Si è animata anche una discussione, un dibattito, sull’importanza della libertà religiosa e il governo stesso è in grande imbarazzo. Sì, siamo certi, certissimi che questa vicenda si concluderà bene, ma in questi momenti serve cautela.








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