2014-05-28 07:35:00

Caso Meriam. Mons. Tomasi serve il rispetto della libertà religiosa e dialogo


Il mondo continua a commuoversi e la comunità internazionale a lavorare affinché le autorità del Sudan lascino libera Meriam Yahya Ibrahim Ishaq. La donna, condannata a morte, con l’accusa di apostasia, ieri ha dato alla luce la bimba che portava in grembo. Massimiliano Menichetti:

Si chiama Maya, la bambina di Meriam Ibrahim Yahya Ishaq, la 27.enne condannata all’impiccagione, per apostasia. La piccola è nata nell’infermeria del carcere di Khartoum, e sta bene. Per ora non ci sono possibilità che Meriam esca dal centro di detenzione. In cella, in catene, ha aspettato la nascita della piccola in compagnia del figlio di 20 mesi. Il marito lotta per liberarla dallo scorso 17 febbraio, quando è stata arrestata dopo la denuncia di un parente. Numerosi gli appelli per la scarcerazione da parte della Chiesa locale, ong e diplomatici. Su di lei pesa l’accusa di essersi convertita al cristianesimo. In realtà, è figlia di una donna cristiana ortodossa e di un musulmano che ha abbandonato la casa quando era piccola, quindi cresciuta con valori cristiani. Per la legge coranica però, che prevede la trasmissione della fede in linea paterna, rimane musulmana. E’ accusata anche di adulterio per aver sposato un cristiano e condannata per questo a cento frustate. Il patibolo è stato sospeso per due anni, per la nascita della figlia, previsto anche un nuovo processo che potrebbe escludere la pena capitale, ma nei giorni scorsi, secondo fonti locali, ha ricevuto ancora pressioni, respinte da Meriam, per abiurare la propria fede.

 

“Bisogna rispettare il diritto fondamentale della libertà religiosa”. Così mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso gli Uffici Onu di Ginevra, sul caso di Meriam:

R. – E un caso sintomatico e lo dobbiamo mettere nel più largo contesto dei casi come quello di Asia Bibi in Pakistan o di altre persone accusate o in prigione per blasfemia o per altri tipi di violazioni o presunte violazioni della legge della sharia. Il problema di fondo è: come rispettiamo i diritti umani fondamentali di queste persone, davanti a certe tradizioni o situazioni politiche, dove è difficile, per ragioni storiche e di cultura pubblica, rispettare questi diritti fondamentali?

D. – E come si declina questa risposta, proprio nel caso concreto del Sudan?

R. – Prima di tutto, mi pare ci sia da rispettare il principio della libertà religiosa, che è un diritto fondamentale: non solo di praticare una religione, ma anche di cambiare religione. E questo è riconosciuto anche dalla Costituzione del Sudan del 2005. E’ una Costituzione provvisoria, ma è la Costituzione che è in vigore. Questo ci dice che, nel caso di Meriam Ibrahim, il sistema giudiziario funziona un po’ sotto pressioni di circostanze locali, più che in linea con una giurisprudenza che dovrebbe, appunto, rispettare il diritto internazionale, riconosciuto anche dal Sudan, della libertà di culto e la libertà di coscienza e di religione. Poi, si tratta di vedere come nella società le donne sono trattate.

D. – In che senso dice questo?

R. – Per esempio, una donna ha libertà di contrarre matrimonio se è musulmana con un’altra persona musulmana, ma non con una persona di un’altra religione, mentre l’uomo musulmano può sposare una donna anche di un’altra religione, senza essere penalizzato attraverso la sharia o altri strumenti giuridici. Quindi, dobbiamo riflettere su questa situazione un po’ più in generale, vedere come aiutare e promuovere questi diritti fondamentali: la libertà di religione, di coscienza, la libertà di cambiare religione, una oggettività del sistema giudiziario, il rispetto della donna come uguale all’uomo nei diritti del matrimonio, dell’eredità, o della partecipazione nella vita pubblica… Partire da questi dati, cercare di creare un clima di dialogo, di comprensione, di educazione, soprattutto per far capire che la strada verso il futuro è quella di un rispetto della dignità di ogni persona.

D. – Tanti sono stati gli appelli della Chiesa locale, anche molte Ong e diplomatici nel mondo sono impegnati nella liberazione di questa ragazza che ha 27 anni. Quanto conta la mobilitazione internazionale?

R. – Creare un’opinione pubblica internazionale che faccia presente il diritto internazionale al governo e al sistema giudiziario del Sudan serve certamente molto, perché questa attenzione a queste situazioni possono indurre a dialogare e a riflettere sulla prevalenza del diritto internazionale su quello locale e, soprattutto, di questi diritti umani fondamentali che devono essere rispettati da tutti. E’ la strada per il futuro della convivenza umana. Dobbiamo lavorare tutti insieme nel mondo di oggi globalizzato, dove le differenze si moltiplicano, dove dappertutto viviamo in un pluralismo di religioni, di culture, di stili di vita che ci inducono a trovare una maniera di convivere pacificamente, partendo dal rispetto fondamentale della persona umana e della sua dignità.








All the contents on this site are copyrighted ©.