2014-05-17 12:12:00

Dolore e cure palliative al convegno dei Medici cattolici


A 70 anni dalla sua fondazione l’Amci, Associazione Medici Cattolici Italiani, ha convocato a Roma un convegno celebrativo del 30.mo anniversario della lettera Apostolica “Salvifici Doloris” di San Giovanni Paolo II. Tema dell’incontro: “Il dolore e la sofferenza alla luce della medicina della ragione  e della fede cristiana”. Paolo Ondarza ha intervistato Filippo Maria Boscia, presidente Amci:

R. – Oggi si sta ponendo l’accento sulla problematica della sedazione del dolore. C’è stato da superare un lungo ed inesauribile equivoco, perché qualcuno ha interpretato che la sofferenza fosse benefica per una proiezione oltre la vita.

D. – Si tratta di un pregiudizio diffuso...

R. – Questo pregiudizio non ha tenuto presente che la nostra religione non è una religione della sofferenza ma è una religione della gioia. La sofferenza non ce la manda il Signore, ce la manda la fragilità della nostra condizione umana. Allora, viceversa, sia la regione, sia la medicina sono unanimi nel dire che tutto quello che può essere sedato deve essere sedato e se abbiamo a disposizione farmaci che nel passato erano considerati poco maneggevoli devono essere sollecitamente impiegati. Tant’è che si comincia a parlare di ospedali senza dolore.

D. – Anche perché il dolore può portare a pensare talvolta a scelte estreme…

R. – Certamente, il dolore quando diventa insopportabile, quando riempie la psiche del soggetto, chiaramente, si chiede di farla finita. In realtà queste non sono le richieste vere degli ammalati, dei cronici, delle persone afflitte dal dolore. La richiesta è quella di rimuovere la componente del dolore. E’ chiaro che se viceversa anziché rimuoverla, noi andiamo ad acuirla, lì in sostanza viene meno la forza intima, morale, di sopportazione. Io credo che nell’ambito di chi assiste queste persone subentri la grande volontà di veder terminare questo percorso del dolore. Chi si augura che la malattia finisca presto, non vuole includere - in questa fine rapida - la morte, ma vuole includere la fine del dolore.

D. - Ecco perché le cure palliative necessitano di essere conosciute meglio…

R. – Sicuramente le cure palliative sono state per molto tempo ridicolizzate. Io ho avuto una grande amicizia con il primo proponente delle cure palliative, qui in Italia, il prof. Ventafridda, il quale veniva quasi canzonato dai suoi colleghi. Ventafridda ha stabilito una volta per tutte una cosa: il rapporto medico-paziente è un incontro tra una fiducia quella del paziente e una coscienza quella del medico. E ha stabilito che in questo rapporto ci sia un’alleanza, che chiamava “alleanza terapeutica”. La persona si trova in una condizione di fragilità. E’ come se fosse un bambino: nel momento in cui un bambino deve attraversare la strada ad ampio traffico, generalmente, ha l’abitudine di prendere per mano il suo tutor, che può essere il papà, la mamma, il nonno. In un momento di fragilità, il malato ha bisogno di essere preso per mano. Ha bisogno di essere accompagnato con una carezza. Noi abbiamo fatto nella nostra realtà l’esperienza della fiaba raccontata al malato cronico, al malato con tumore invasivo. C’è una risposta positiva che aiuta, attraverso meccanismi di endorfine, un miglioramento e soprattutto un’adesione al progetto di cura.

D. – Mai un medico deve dire che non c’è più niente da fare…

R. – Sì, direi che questo è un elemento dominante. Il medico non deve dare assolutamente mai l’impressione di abbandonare. Il discorso dell’eutanasia, al quale facevamo riferimento prima, deriva dall’immagine dell’abbandono: quando una persona in abbandono vuol farla finita.

La terapia del dolore e le cure palliative rappresentano un’importante risorsa nella malattia e nel fine vita. Vincere il dolore infatti, come evidenziato durante il convegno Amci, vuol dire vincere la richiesta di eutanasia. Su questo aspetto si sofferma mons. Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia della Vita. L’intervista è di Paolo Ondarza:

R. – Effettivamente, fino a poco tempo fa, la giustificazione che veniva offerta per un’eventuale eutanasia era sempre questa: liberare l’uomo di un dolore. Ma ormai le cose sono cambiate in modo molto radicale. Io stesso ho avuto occasione di vederlo, quando stavo alla facoltà di medicina del Gemelli, perché ho presenziato - non come tecnico del dolore, ovviamente - a intereventi risolutivi anche nelle situazioni più disperate. Perché se è necessario, si arriva a quella che è conosciuta come “sedazione profonda”. Una persona continua a vivere però senza soffrire.

D. – Poco conosciute e in questo convegno se ne parla sono le cure palliative…

R. – Sì, sarebbe molto importante che tutti sapessimo che ormai il dolore non è una cosa che si deve sopportare e basta. Ormai c’è già una disponibilità di interventi - alle volte sono costosi, questo bisogna dirlo - però non c’è nessun motivo per doversi tenere un dolore, una sofferenza, anzi se è possibile bisogna prevenire. Per esempio, il Gemelli ha anche un hospice per persone che si trovano in una situazione molto complicata, quasi sempre si tratta problemi di natura oncologica. L’ala direttrice segue un’impostazione di prevenzione, non aspetta che il dolore compaia ma quando ci sono già i primi segni di un’evoluzione che si vede prenderà quella o quella strada, interviene perché questo è molto più efficace. Si stanno facendo passi in avanti enormi. Non direi che ogni giorno arriva un nuovo farmaco, un nuovo interevento palliativo, però le prospettive sono sempre migliori.

D. – La preghiera per i pazienti e la preghiera del paziente: cosa si può dire su questo?

R. – Si potrebbe dire molto. La preghiera, dal punto di vista della salute, della situazione corporale, migliora tante cose. Una spiegazione, la più ovvia che viene in mente, è che questo significhi un intervento dall’alto, ma risponde anche alla messa in moto di certi meccanismi sconosciuti ma che aiutano.

Sull’attualità della lettera Apostolica “Salvifici Doloris”, scritta trent’anni fa da San Giovanni Paolo II, Paolo Ondarza ha intervistato mons. Zygmunt Zimovski, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari:

R. – Noi sappiamo che da sempre nel mondo esiste il dolore, la sofferenza. Quando improvvisamente viene la malattia di un innocente, di un bambino, noi chiediamo il perché. Credo che la risposta sia Gesù Cristo che ha sofferto per noi, per la nostra salvezza. La prima enciclica che ha scritto Giovanni Paolo II,  è la Redemptor hominis: Gesù Cristo è il redentore dell’uomo. In questa enciclica Giovanni Paolo II ha scritto che l’uomo è la via della Chiesa. Nella lettera Salvifici doloris ha aggiunto che, in modo particolare, quando viene la sofferenza la propria sofferenza si unisce con quella di Gesù Cristo.

D. – L’umanità fa i conti sempre con la sofferenza. Giovanni Paolo II è stato un testimone di come affrontare con fede la sofferenza…

R. – Lui è icona del Vangelo della sofferenza, ha sofferto tanto. Noi ricordiamo l’attentato, il 13 maggio 1981, e anche dopo alcuni interventi. Ma, aveva sempre questa gioia e questa speranza. Dopo il pontificato di Giovanni Paolo II ho sentito che sono rimasti cinque milioni di fotografie ma per me la fotografia più bella, più toccante, è del Venerdì Santo, quando il Papa tiene la Croce unendosi con la via Crucis del Colosseo: il Papa prega aggrappato alla Croce del suo Signore, del suo Maestro. Lui un giorno ha detto che pregava per la salute degli altri ma non pregava mai per la propria salute.

D. – Questo dà anche l’idea di come la prossimità agli altri attraverso la preghiera e la testimonianza di vita negli ospedali, nelle strutture sanitarie, sia molto importante…

R. – Io volevo anche aggiungere quello che ci dice Papa Francesco nella sua enciclica sulla fede. Lui dice che il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata ma può ricevere un senso e questo è importante: può diventare – sottolinea il Papa – atto di amore, di affidamento nelle mani di Dio che non ci abbandona.








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