Giornata del jazz. Stefano Battaglia: i ritmi di oggi nuovi e globalizzati
E’ arte internazionale che parla tante lingue, è un mezzo di comunicazione che trascende
le differenze di razza, religione, nazionalità: è la musica jazz. Per questo motivo,
l’Unesco ha scelto di celebrarla il 30 aprile con una Giornata internazionale. Regno
dell’improvvisazione libera e personale e frutto di una storia partita all’inizio
del XX secolo dal sud degli Stati Uniti, questo genere musicale continua a seguire
l’evoluzione del mondo, come racconta il pianista Stefano Battaglia, in concerto
mercoledì sera alla Casa del Jazz di Roma. L’intervista è di Gabriella Ceraso:
R. - La genesi
stessa del Jazz si è nutrita delle contaminazioni culturali e di tradizioni diverse
che sono entrate come in osmosi. Questa cosa si perpetua nel tempo: anche dopo un
secolo, la musica è in continua trasformazione, esattamente come lo è la società.
D. - E cosa entra in questo linguaggio? Ritmo, improvvisazione, armonia, strumentazione…
R.
- Credo che la cosa più importante sia l’urgenza espressiva e anche il desiderio di
trovare nuovi linguaggi e sperimentare nuove musiche, che credo sia il comune denominatore
più vibrante e anche più interessante, forse, del jazz.
D. - In che cosa -
diciamo - questo tipo di musica può un po’ essere da modello, anche per il vivere
comune?
R. - Ci può insegnare una tolleranza profonda e a mantenere anche delle
autonomia individuali, pur senza dimenticare che la ragione ultima, quindi filosoficamente
la prima, di stare insieme sul pianeta è quella di comunicare tra di noi.
D.
- A che cosa attinge, proprio nello specifico, il jazz? Africa, Europa…
R.
- In effetti, la situazione è cambiata radicalmente in cento anni, perché il mondo
ha avuto una trasformazione rapidissima nell’ultimo secolo. Possiamo dire che la globalizzazione
ha messo in effetti, in un certo senso, a dura prova l’idioma specifico e originario
del jazz. E’ rimasta come, in quel senso, una musica quasi classica americana. Ma
il jazz, invece, che si è rinnovato, quello degli ultimi 30-40 anni, è una musica
decisamente globalizzata, dove ci sono componenti anche nord europee, sud europee
e dell’area del Mediterraneo, compresa naturalmente l’Italia. Quindi in questo senso
è più una musica del mondo in questo momento.
D. - Perché si dice - quando
si legge del jazz - che è espressione di libertà?
R. - Sì, perché in un certo
senso l’improvvisazione contiene in sé il privilegio di poter stare nell’adesso, nel
presente, e poter esprimersi esclusivamente per quello che il presente, l’urgenza
espressiva esige. Questa è una condizione che l’interprete non ha, perché si cala
nella partitura e, in un certo senso, si annulla anche in essa.
D. - Di chi
il jazz di oggi - lei dice che ormai è diventata musica del mondo - non avrebbe mai
potuto fare a meno?
R. - Credo che, mi sbilancio in questo senso, il jazz non
debba fare l’errore che ha fatto la musica classica, diciamo la musica colta europea,
di cristallizzare la sua evoluzione nel passato, ma deve dialogare con questa cultura,
senza però smarrire le sue caratteristiche specifiche, che sono invece quelle di guardare
dentro il futuro.
D. - Come si insegna la musica jazz?
R. - La cosa
più importante è insegnare la fiducia, in un certo senso, nel costruire una identità
ed è l’unica cosa di cui ha bisogno la gente che ascolta la musica: sentire l’individuo
che si esprime nel modo più profondo, perché l’elemento di verità nell’arte è quello
più importante.