2014-04-25 14:00:10

L'amore più forte della sofferenza: Papa Wojtyla nel ricordo di chi l'ha assistito al Gemelli


Uno dei tratti salienti della personalità di Giovanni Paolo II è stato senz’altro il suo rapporto con il corpo, nel pieno delle forze nella giovinezza a contatto con la natura, e poi in età più avanzata nel dolore e nei limiti fisici. Anzi, quella della malattia vissuta con piena dignità e nella totale accettazione della volontà di Dio è stata per tanti uno dei segni più importanti dell’intero Pontificato di Papa Wojtyla. Lo conferma, al microfono di Adriana Masotti, la testimonianza di Maria Tirino, aiuto infermiera al Policlinico “Agostino Gemelli”, in servizio proprio nel reparto in cui il Papa fu ricoverato negli ultimi giorni della sua vita:RealAudioMP3

R. – Sicuramente, io l’ho sentito proprio come un dono il far parte di questa équipe. Ognuno di noi aveva un incarico ben preciso, affinché tutto funzionasse bene. Io prestavo attenzione a tutto ciò che riguardava la sua biancheria, sia sporca che pulita, e poi tutto ciò che poteva essere l’alimentazione... Poi, in un preciso momento, quello che serviva si faceva. Lui, nella sua sofferenza, manifestava amore: amore per tutti. Nessuno di noi, quando entravamo nella camera, passava inosservato. Ci guardava sempre con quella serenità, con quell’amore paterno, quasi a dirci “grazie”, andando oltre la sua sofferenza. Perché non gli è mancata, la sofferenza! Una cosa che a me è rimasta tanto impressa è che quando lo guardavo, certo, la sua sofferenza si vedeva, ma ancora più forte mi colpiva la luce e la forza di una persona che sa di essere amata da Dio. Ecco: lui lo faceva capire.

D. – C’è qualche episodio, qualche particolare di quei giorni, che vorrebbe raccontare?

R. – Ogni giorno, c’era la Santa Messa nella sua stanza e ai medici veniva sempre dato l’incarico di leggere le Letture. Una mattina, mons. Stanislao viene in cucina: io ero lì con due colleghe. Entra e ci dice: “Il Santo Padre vuole che le Letture siano lette anche da voi”. Infatti, noi restavamo sempre un pochino nascoste, da parte. Lui aveva notato questo e ci diceva che sarebbe stato contento se avessimo letto anche noi le Letture. Da qui, si vedeva quanta attenzione aveva per tutti: nessuno di noi passava inosservato.

D. – Certamente, Giovanni Paolo II in quel momento era un uomo indifeso e bisognoso degli altri. Come viveva questa sua dipendenza?

R. – Posso dire con molta serenità. Vedevi che lui non dimostrava disagio, proprio perché, quando uno di noi entrava in quella camera, più che pensare a se stesso era proiettato verso di noi, a volerci bene. Vedevi quasi che si staccava dalla sua sofferenza. Era sempre “fuori” di sé. Ricordo che stavamo alle sue spalle quando si affacciò alla finestra del Gemelli e… quel momento di sfogo – l’abbiamo visto tutti in televisione – io lo ho sempre interpretato così: lui aveva desiderio di amare gli altri, e in quel momento era come se lui non potesse dire agli altri: “Io sto bene”. Questa è l’impressione che ho sempre avuto. Ma non perché non riuscisse a parlare…

D. – Di Giovanni Paolo II è stata riconosciuta la santità. Che effetto le fa pensare di essere stata così vicina a un Santo?

R. – Io penso che sia stato un dono che Dio mi ha fatto, quello di aver potuto essere stata vicina ad un Santo. Un dono grande… Con Giovanni Paolo adesso io ci parlo così, semplicemente, per me è diventato uno di famiglia, uno che fa parte di me...







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