2014-04-17 14:03:23

Cina: 30 mila lavoratori incrociano le braccia a Dongguan per l’aumento del salario


La “crescita economica è stabile, ma ci sono rischi al ribasso” è il commento del governo Cinese sul prodotto interno lordo del primo trimestre cresciuto del 7,4%, ma in frenata rispetto all'ultimo trimestre del 2013. Intanto, continuano gli scioperi dei lavoratori della Yue Yuen Industrial, a Dongguan, nel sud del Paese, che fornisce prodotti a diversi marchi stranieri. Qui circa 30 mila persone hanno incrociato le braccia per il miglioramento delle condizioni economiche. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Francesco Sisci corrispondente a Pechino de "Il Sole 24 Ore”:RealAudioMP3

R. – L’origine degli scioperi è per una richiesta di aumenti salariali. I numeri non sono importanti. Dobbiamo sempre pensare che ci troviamo in un Paese di un miliardo e mezzo di persone, dove trentamila operai che scioperano equivalgono, quindi, rispetto all’Italia, a 500 o 600. Quello che è importante però è il segnale che il governo vuole dare rispetto a questi scioperi. Nel dare la notizia, attraverso i suoi mezzi di stampa, il governo vuole dire “Imprese, dovete aumentare i salari”, cominciando dalle imprese straniere, per poi passare alle altre.

D. – Ma si vogliono così colpire le imprese straniere o realmente c’è un processo di cambiamento?

R. – E’ un processo di cambiamento reale. Del resto, ondate di scioperi, manovre di questo genere, in qualche modo assecondate dal governo se non proprio pilotate, già ne abbiamo viste qualche anno fa e hanno portato ad aumenti salariali significativi. Mi sembra che anche oggi stiamo assistendo ad un processo analogo.

D. – Perché sfruttare lo strumento dello sciopero e non intervenire in maniera diversa, quindi favorendo con provvedimenti legislativi questo tipo di aumenti?

R. – Io non credo ci sia una regia occulta sullo sciopero. Io penso piuttosto che ci sia stata un’iniziativa, che inizialmente era spontanea, ma che poi è stata assecondata. E adesso il governo sta cercando di seguire questa iniziativa degli stati sociali e operai per vedere fino a dove aumentare i salari, quanto, e quali siano le richieste. Anche perché i salari in Cina non sono uguali a livello nazionale: cambiano secondo le città e le zone.

D. – L’opinione pubblica dibatte su questo tema? E’ interessata oppure no?

R. – Non è una priorità assoluta per la gente comune, anche perché non è più una novità.

D. – Quando si guarda al mondo cinese, parlando di lavoro, spesso emergono gravi violazioni di diritti dei lavoratori, in termini di sicurezza o salari minimi. Questa è ancora una realtà o si sta cambiando?

R. – In realtà, è già cambiata moltissimo. Quattro o cinque anni fa mi sembra ci sia stato un cambiamento radicale. Ormai gli operai cinesi ricevono in tasca, non è il costo sociale, ma ricevono salari che si aggirano sui seicento, settecento euro o anche di più al mese. Certamente non sono salari occidentali, ma ormai sono molto vicini. Tanto più vicini, perché la produttività media dell’operaio cinese è molto più bassa dell’operaio italiano, per esempio. Adesso alcuni investitori cinesi portano le produzioni in Paesi terzi – Africa, Vietnam, Bangladesh e così via – e ci sono dei fenomeni di aziende cinesi, che hanno comprato aziende tedesche e che hanno lasciato lì in Germania tutta la produzione, perché ormai il costo del lavoro, in Germania, è più basso che in Cina.







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