Cina: 30 mila lavoratori incrociano le braccia a Dongguan per l’aumento del salario
La “crescita economica è stabile, ma ci sono rischi al ribasso” è il commento del
governo Cinese sul prodotto interno lordo del primo trimestre cresciuto del 7,4%,
ma in frenata rispetto all'ultimo trimestre del 2013. Intanto, continuano gli scioperi
dei lavoratori della Yue Yuen Industrial, a Dongguan, nel sud del Paese, che fornisce
prodotti a diversi marchi stranieri. Qui circa 30 mila persone hanno incrociato le
braccia per il miglioramento delle condizioni economiche. Massimiliano Menichetti
ne ha parlato con Francesco Sisci corrispondente a Pechino de "Il Sole 24 Ore”:
R. – L’origine
degli scioperi è per una richiesta di aumenti salariali. I numeri non sono importanti.
Dobbiamo sempre pensare che ci troviamo in un Paese di un miliardo e mezzo di persone,
dove trentamila operai che scioperano equivalgono, quindi, rispetto all’Italia, a
500 o 600. Quello che è importante però è il segnale che il governo vuole dare rispetto
a questi scioperi. Nel dare la notizia, attraverso i suoi mezzi di stampa, il governo
vuole dire “Imprese, dovete aumentare i salari”, cominciando dalle imprese straniere,
per poi passare alle altre.
D. – Ma si vogliono così colpire le imprese straniere
o realmente c’è un processo di cambiamento?
R. – E’ un processo di cambiamento
reale. Del resto, ondate di scioperi, manovre di questo genere, in qualche modo assecondate
dal governo se non proprio pilotate, già ne abbiamo viste qualche anno fa e hanno
portato ad aumenti salariali significativi. Mi sembra che anche oggi stiamo assistendo
ad un processo analogo.
D. – Perché sfruttare lo strumento dello sciopero e
non intervenire in maniera diversa, quindi favorendo con provvedimenti legislativi
questo tipo di aumenti?
R. – Io non credo ci sia una regia occulta sullo sciopero.
Io penso piuttosto che ci sia stata un’iniziativa, che inizialmente era spontanea,
ma che poi è stata assecondata. E adesso il governo sta cercando di seguire questa
iniziativa degli stati sociali e operai per vedere fino a dove aumentare i salari,
quanto, e quali siano le richieste. Anche perché i salari in Cina non sono uguali
a livello nazionale: cambiano secondo le città e le zone.
D. – L’opinione pubblica
dibatte su questo tema? E’ interessata oppure no?
R. – Non è una priorità assoluta
per la gente comune, anche perché non è più una novità.
D. – Quando si guarda
al mondo cinese, parlando di lavoro, spesso emergono gravi violazioni di diritti dei
lavoratori, in termini di sicurezza o salari minimi. Questa è ancora una realtà o
si sta cambiando?
R. – In realtà, è già cambiata moltissimo. Quattro o cinque
anni fa mi sembra ci sia stato un cambiamento radicale. Ormai gli operai cinesi ricevono
in tasca, non è il costo sociale, ma ricevono salari che si aggirano sui seicento,
settecento euro o anche di più al mese. Certamente non sono salari occidentali, ma
ormai sono molto vicini. Tanto più vicini, perché la produttività media dell’operaio
cinese è molto più bassa dell’operaio italiano, per esempio. Adesso alcuni investitori
cinesi portano le produzioni in Paesi terzi – Africa, Vietnam, Bangladesh e così via
– e ci sono dei fenomeni di aziende cinesi, che hanno comprato aziende tedesche e
che hanno lasciato lì in Germania tutta la produzione, perché ormai il costo del lavoro,
in Germania, è più basso che in Cina.