Siria. Un religioso di Aleppo: in città bombe e paura, ma ci facciamo coraggio
La drammatica notizia del nuovo ricorso alle armi chimiche in Siria si intreccia con
le altre che arrivano dai vari teatri di combattimento nel Paese. Ad Aleppo, gli ultimi
scontri armati tra milizie anti-Assad ed esercito di Damasco hanno fatto registrare
uno dei bilanci più sanguinosi dall’inizio della battaglia cominciata nella metà del
2012. E in questa situazione estremamente drammatica, di grande supporto diventano
gli aiuti che arrivano dai sacerdoti rimasti ancora nella seconda città della Siria.
Ascoltiamo la testimonianza di padreJoseph Bazouzou, parroco della
chiesa di rito armeno della Santa Trinità, al microfono di Marina Tomarro:
R. - In Aleppo,
ormai, sono più di due anni che c’è il conflitto in modo continuo, perché è considerata
la seconda città della Siria, dove c’è il commercio e alcune fabbriche: purtroppo
è tutto fermo, soprattutto le fabbriche… Mi trovo in un quartiere popolare, che oggi
si può dire sia considerato il limite tra una parte e l’altra della città. Solo fra
gli armeni ci sono circa 300 famiglie senza un tetto e l’aver perso la casa vuol dire
aver perso anche il luogo del loro lavoro, perché tutti gli armeni sono commercianti
e vivono del lavoro quotidiano… Mai in Siria avevamo sentito qualcuno dire: “Abbiamo
fame!”. Purtroppo adesso sentiamo spesso questo “Abbiamo fame!”. La Conferenza episcopale
in Siria ha dichiarato che sono state colpite oltre 100 chiese in tutta la Siria.
Noi armeni cattolici, in Siria, abbiamo cinque chiese e un convento: adesso tutto
è inagibile, perché sono stati bombardati o sono stati chiusi o si trovano in quartieri
in cui non possiamo andare. Quando parliamo di chiese, ovviamente parliamo anche delle
persone che vivono intorno: c’è gente, ci sono i parrocchiani che magari ora sono
in un altro quartiere o sono scappati a Beirut o si trovano in altre città della
Siria.
D. - Quali sono, in questo momento, le maggiori difficoltà che il suo
popolo sta affrontando?
R. - Mancanza di lavoro, mancanza di sicurezza… Ci
sono pochi medici e le medicine sono poche, come pure le scuole: una delle nostre
quattro scuole non può più essere utilizzata, perché si trova nel quartiere vicino
al Vescovado che è un po’ pericoloso. E’ stata allora scelta una sala grande, sotto
alla Chiesa, la hanno divisa in diverse aule e a turno fanno scuola. Malgrado tutte
queste difficoltà, la gente continua a venire in chiesa, come una volta. La mia parrocchia
è stata colpita circa quattro volte, ma la gente continua come sempre a venire. Qualcuno
dice: “Ma non avete paura?”. “Sì, certo! Abbiamo paura!”. Però io dico sempre: “Abbiamo
paura nel momento in cui viene colpita o quando sparano, ma dopo…”. Dobbiamo abituarci,
dobbiamo aver fiducia nel Signore! Dobbiamo fare dei progetti, anche se non riusciamo
a realizzarli tutti, ma sempre - in modo continuo - continuiamo a organizzare.
D.
- Voi portate aiuto a tante famiglie, sia cristiane che musulmane. C’è quindi anche
una forma di solidarietà tra loro…
R. - Tutti quelli che hanno creato il centro
di aiuto, aiutano senza distinzione, chiunque bussi alla porta. Nella mia parrocchia,
la Santissima Trinità, aiutiamo circa 250 famiglie e tra di loro ci sono circa 40
famiglie non cristiane, che sono curde, musulmane… Quando si presentano, per quando
sia possibile, cerchiamo di fare degli incontri, per parlare un po’. La gente viene,
ci ringrazia e ci dicono: “Ringraziate il Signore e pregate per i benefattori”. Del
resto, tutti noi siamo dei mezzi.
D. - Secondo lei, cosa dovrebbe fare maggiormente
la Comunità internazionale per aiutare il suo Paese?
R. - Il Papa ci chiede:
dialogo, penitenza, umiltà. Ma queste parole si possono anche dire alla che la comunità
internazionale. Quando parliamo di “dialogo”, non vogliamo certo significare che uno
si metta direttamente a dialogare: prima si mette prima a meditare. Nella fase di
preparazione uno deve conoscere l’altro, il perché… Ci sono tante domande. Quindi,
per mettersi a dialogare, deve prima essere sincero con se stesso, essere aperto all’altro:
allora questo viene più facile. E’ bello che ciascuna sappia dove io ho sbagliato,
ma come fosse fare anche meglio. Questo ce lo ha insegnato Gesù Cristo e questo è
quello che noi dobbiamo vivere. Senza questo, è un po’ difficile.
D. - Papa
Francesco, tante volte, in molti Angelus, ha chiesto di pregare per la Siria. Questi
inviti del Papa in che modo sono accolti dalla sua gente?
R. - La comunità
cristiana in Siria ammira le parole del Santo Padre. Il bene non fa rumore, ma fa
del bene e il risultato viene sempre dopo. Gli annunci che fa il Santo Padre arrivano
alla nostra gente, perché subito - appena riusciamo a ricevere questi messaggi - li
facciamo arrivare alla gente. Soprattutto lo scorso 7 settembre, anche noi lo consideriamo
un miracolo! Così all’improvviso, sono cambiate tante cose. Anche se non si è fermata
la guerra, ma poteva essere ancora peggio.