Rwanda: un mese di eventi per ricordare il 20.mo anniversario del genocidio
L’accensione di una fiamma al memoriale di Gisozi, a Kigali, da parte del presidente
Paul Kagame, con una torcia che ha percorso il paese delle Mille colline negli ultimi
tre mesi, ha segnato l’avvio ufficiale delle celebrazioni del ventennale del genocidio.
La fiamma rimarrà accesa per 100 giorni, la durata dei massacri della primavera del
1994. Come ogni anno il lutto, ‘icyunamo’ in lingua kinyarwanda, ha inizio il 7 aprile,
Giornata internazionale di commemorazione del genocidio dei Tutsi. “Un tempo per ricordarsi
delle vite perse, per dare prova di solidarietà con i sopravvissuti e per unirci affinché
non accada mai più, in Rwanda come altrove” recita il programma ufficiale. A seguire
l’atteso intervento del capo dello Stato nel principale stadio della capitale, con
la partecipazione di rappresentanti di numerosi paesi e organizzazioni internazionali,
tra cui il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Una commemorazione che si svolge
in un clima di rinnovate polemiche e tensioni diplomatiche tra Kigali e Parigi. Dopo
le ultime accuse di Kagame sul “coinvolgimento diretto della Francia nell’esecuzione
stessa del genocidio”, il ministro della Giustizia Christiane Taubira ha annullato
il viaggio in Rwanda. Avrebbe dovuto essere sostituita dall’ambasciatore francese
a Kigali Michel Flesch, il quale, però, è stato dichiarato dalle autorità locali “persona
non grata” alle celebrazioni. Il lutto ufficiale si concluderà il prossimo 4 luglio,
data dell’ingresso a Kigali 20 anni fa del Fronte patriottico ruandese (Fpr), guidato
da Kagame, che mise fine ai massacri nei quali hanno perso la vita tra 500.000 e 800.000
persone, per lo più Tutsi ma anche Hutu moderati. Il presidente dei vescovi del
Rwanda, ricevuti in visita ad limina la scorsa settimana dal Papa, mons. Smaragde
Mbonyintege, descrive al microfono di Hélène Destombes a che punto sia
il processo di riconciliazione interno e quale ruolo abbia giocato e giochi in esso
la Chiesa locale:
R. – La question
du processus de réconciliation a été un point fort… La questione del processo di
riconciliazione è stato un punto forte e abbiamo ricordato come Giovanni Paolo II
ci sia stato molto vicino nei momenti difficili, con parole forti che ci hanno aiutato
e sostenuto. A partire da questo, egli ci ha anche incoraggiato a continuare nel processo
di riconciliazione, e così abbiamo parlato anche della ricostruzione della nostra
Chiesa e ci siamo chiesti: “Dove va la nostra Chiesa?” Abbiamo detto che faremo un
bilancio che sarà pubblicato tra due-tre settimane, quando ritorneremo a casa.
D.
– Il Papa vi ha chiesto di essere una Chiesa unita. Sappiamo che durante il genocidio,
alcuni religiosi sono stati criticati a causa di loro responsabilità nei fatti, mentre
altri sono stati lodati per i loro interventi contro questo dramma. Concretamente,
qual è il vostro bilancio come vescovi?
R. – Pour nous, le bilan est positif.
Les rwandais vivent en paix… Per noi, il bilancio è positivo. I rwandesi vivono
in pace e hanno compreso a fondo il male prodotto da quell’esasperato etnicismo. Credo
che la lezione che ne abbiamo tratto, come Chiesa e come popolo, sia di non voler
mai più ricadere in un dramma del genere. Il governo attuale, che punta sull’unità
nazionale e sulla riconciliazione, sulla pace e sulla giustizia, va di pari passo
con dei progressi in ambito economico che sono palpabili. Questo non vuol dire che
non ci siano ferite, ce ne sono. Questo non significa che non ci siano i poveri: ci
sono e richiamano tutta la nostra attenzione. Ma noi siamo convinti che il cammino
che stiamo facendo, con gli insegnamenti che abbiamo tratto da quei momenti tragici,
ci aiuterà a riedificarci come popolo e come Chiesa.
D. – In quale misura la
Chiesa rwandese contribuisce oggi alla ricostruzione del Paese e alla riconciliazione?
R.
– C’est toute notre mission: parler d’unité, de paix, de réconciliation… E’ questa
tutta la nostra missione: parlare di unità, di pace, di riconciliazione… E’ vero che
la Chiesa è stata accusata, ma a volte si è trattato di malintesi. Le persone non
hanno trovato quello che si aspettavano dalla Chiesa e anzi a volte hanno trovato
cristiani sui quali pesava l’ombra del genocidio. Che siano stati uno, o dieci o venti:
erano comunque “la Chiesa”. Ma noi diciamo “no”: la Chiesa ha perso i suoi figli e
li ha persi due volte. Li ha persi tra le vittime del genocidio, tra coloro che sono
stati uccisi, e li ha perduti tra i carnefici che avevano smarrito la fede, i loro
punti di riferimento cristiani. E questa è la sofferenza della nostra Chiesa cattolica
in Rwanda.
D. – Vent’anni dopo il genocidio, la Francia ha condannato per la
prima volta un rwandese. Cosa significa, per il Paese, questa condanna?
R.
– Je n’aime pas qu’on fasse de ce génocide une question politique… Non mi piace
che si faccia del genocidio una questione politica, o l’oggetto di un interessamento
costante. Il genocidio è stato commesso per tutelare degli interessi, e anche la giustizia
che si vuole fare ora vuole tutelare degli interessi economici. Per noi, invece, il
problema non è questo. Il problema è il nostro Paese: che faccia giustizia o che non
faccia giustizia, per noi l’essenziale è vivere come popolo rwandese. E’ come una
sorta di drammatizzazione e non è questo che ci salverà. Noi saremo salvati da quello
che siamo, per quello che viviamo.
D. – Quali sono i segni di speranza nel
Paese?
R. – C’est que les gens peuvent vivre ensemble… Il fatto che le persone
riescano a convivere. Dopo che alcuni hanno confessato davanti al Gacaca, il tribunale
popolare, e hanno chiesto perdono, sono tornati a vivere tra gli altri e nonostante
le ferite che ci sono, riescono a lavorare insieme. E questi sono i segni di speranza.
E poi, soprattutto nelle nostre chiese, a partire dalle comunità ecclesiali di base,
siamo riusciti a unire tutti i cristiani per ravvivare la vita cristiana: questi,
tutti, sono segni di speranza.