2014-04-04 15:34:14

Rwanda. Il presidente dei vescovi: 20 anni dopo il genocidio, ferite meno profonde


Venti anni fa, era il 7 aprile 1994, iniziava una delle pagine più tragiche della storia recente – il genocidio in Rwanda. proprio in questi giorni, Papa Francesco ha ricevuto in visita ad Limina i vescovi del Paese africano. Il loro presidente, mons. Smaragde Mbonyintege, descrive al microfono di Hélène Destombes a che punto sia il processo di riconciliazione interno e quale ruolo abbia giocato e giochi in esso la Chiesa locale: RealAudioMP3

R. – La question du processus de réconciliation a été un point fort…
La questione del processo di riconciliazione è stato un punto forte e abbiamo ricordato come Giovanni Paolo II ci sia stato molto vicino nei momenti difficili, con parole forti che ci hanno aiutato e sostenuto. A partire da questo, egli ci ha anche incoraggiato a continuare nel processo di riconciliazione, e così abbiamo parlato anche della ricostruzione della nostra Chiesa e ci siamo chiesti: “Dove va la nostra Chiesa?” Abbiamo detto che faremo un bilancio che sarà pubblicato tra due-tre settimane, quando ritorneremo a casa.

D. – Il Papa vi ha chiesto di essere una Chiesa unita. Sappiamo che durante il genocidio, alcuni religiosi sono stati criticati a causa di loro responsabilità nei fatti, mentre altri sono stati lodati per i loro interventi contro questo dramma. Concretamente, qual è il vostro bilancio come vescovi?

R. – Pour nous, le bilan est positif. Les rwandais vivent en paix…
Per noi, il bilancio è positivo. I rwandesi vivono in pace e hanno compreso a fondo il male prodotto da quell’esasperato etnicismo. Credo che la lezione che ne abbiamo tratto, come Chiesa e come popolo, sia di non voler mai più ricadere in un dramma del genere. Il governo attuale, che punta sull’unità nazionale e sulla riconciliazione, sulla pace e sulla giustizia, va di pari passo con dei progressi in ambito economico che sono palpabili. Questo non vuol dire che non ci siano ferite, ce ne sono. Questo non significa che non ci siano i poveri: ci sono e richiamano tutta la nostra attenzione. Ma noi siamo convinti che il cammino che stiamo facendo, con gli insegnamenti che abbiamo tratto da quei momenti tragici, ci aiuterà a riedificarci come popolo e come Chiesa.

D. – In quale misura la Chiesa rwandese contribuisce oggi alla ricostruzione del Paese e alla riconciliazione?

R. – C’est toute notre mission: parler d’unité, de paix, de réconciliation…
E’ questa tutta la nostra missione: parlare di unità, di pace, di riconciliazione… E’ vero che la Chiesa è stata accusata, ma a volte si è trattato di malintesi. Le persone non hanno trovato quello che si aspettavano dalla Chiesa e anzi a volte hanno trovato cristiani sui quali pesava l’ombra del genocidio. Che siano stati uno, o dieci o venti: erano comunque “la Chiesa”. Ma noi diciamo “no”: la Chiesa ha perso i suoi figli e li ha persi due volte. Li ha persi tra le vittime del genocidio, tra coloro che sono stati uccisi, e li ha perduti tra i carnefici che avevano smarrito la fede, i loro punti di riferimento cristiani. E questa è la sofferenza della nostra Chiesa cattolica in Rwanda.

D. – Vent’anni dopo il genocidio, la Francia ha condannato per la prima volta un rwandese. Cosa significa, per il Paese, questa condanna?

R. – Je n’aime pas qu’on fasse de ce génocide une question politique…
Non mi piace che si faccia del genocidio una questione politica, o l’oggetto di un interessamento costante. Il genocidio è stato commesso per tutelare degli interessi, e anche la giustizia che si vuole fare ora vuole tutelare degli interessi economici. Per noi, invece, il problema non è questo. Il problema è il nostro Paese: che faccia giustizia o che non faccia giustizia, per noi l’essenziale è vivere come popolo rwandese. E’ come una sorta di drammatizzazione e non è questo che ci salverà. Noi saremo salvati da quello che siamo, per quello che viviamo.

D. – Quali sono i segni di speranza nel Paese?

R. – C’est que les gens peuvent vivre ensemble…
Il fatto che le persone riescano a convivere. Dopo che alcuni hanno confessato davanti al Gacaca, il tribunale popolare, e hanno chiesto perdono, sono tornati a vivere tra gli altri e nonostante le ferite che ci sono, riescono a lavorare insieme. E questi sono i segni di speranza. E poi, soprattutto nelle nostre chiese, a partire dalle comunità ecclesiali di base, siamo riusciti a unire tutti i cristiani per ravvivare la vita cristiana: questi, tutti, sono segni di speranza.







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