Kerry torna in Medio Oriente, ultimatum dell'Anp per il rilascio dei prigionieri
Il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen ha annunciato che l'Anp ha
deciso di proseguire nella strada di ottenere il riconoscimento internazionale quale
Stato ed ha presentato istanza per entrare a far parte di 15 agenzie Onu. E ieri,
secondo secondo incontro tra il segretario di Stato americano, John Kerry, e il premier
israeliano, Benjamin Netanyahu, nel tentativo di sbloccare l’impasse e salvare i colloqui
di pace in Medio Oriente. Alessando Politi, analista politico e strategico
traccia il quadro della situazione, al microfono di Cecilia Seppia:
R. – Innanzitutto,
c’è una controparte israeliana che non ha nessun interesse al processo di pace. Spera
che la questione dei due Stati e dei due popoli si chiuda, e in effetti è stata chiusa
dalla continua colonizzazione che è stata compiuta nei territori occupati, e spera
che la questione venga congelata lì, finita. Questa è la linea del governo israeliano.
D’altro canto, i palestinesi non sono riusciti a costruire un’unità politica e quindi
hanno pochissima leva per mandare avanti questo processo.
D. – Questa volta,
però, l’Anp alza la voce e pone una sorta di ultimatum a Kerry, chiedendogli di fornire
garanzia sul rilascio, da parte di Israele, dell’ultimo gruppo di detenuti palestinesi
– circa 30 – altrimenti riaprirà le procedure per l’ammissione all’Onu. Quanto è reale
questa minaccia, e che cosa comporterebbe?
R. – La leva dell'ammissione all’Onu
ha due effetti. Uno, quello di creare un fatto compiuto di statualità, e già c’è stato
un primo passo nell’Assemblea generale; con la statualità, entra in crisi tutto il
sistema di occupazione militare israeliano, che dura dal ’67. In secondo luogo, il
fatto che la Palestina possa, in un tempo più o meno lungo o breve, assumere dimensioni
statuali significa che la campagna informale di boicottaggio e disinvestimento delle
strutture israeliane statali, che favoriscono l’occupazione, acquisti ancora più tenuta.
E questa, naturalmente, è una cosa che preoccupa il governo Netanyahu.
D. –
Guardiamo meglio ai prigionieri che sono oggetto di scambio: ovviamente, tra questi
ci sono persone che gli israeliani conoscono bene e che potrebbero avere anche forti
contatti con cellule terroristiche. Ecco perché Israele continua a tenere il punto
su questa faccenda. E Kerry, questa mattina, ha cercato di strappare un compromesso,
a Netanyahu, che potrebbe comportare – tra gli altri – il rilascio di Jonathan Pollard.
Ricordiamo chi è questa figura?
R. – E’ un cittadino americano che ha passato
segreti di sicurezza nazionale agli israeliani, e quindi è stato condannato per alto
tradimento e spionaggio. E’ chiaro che Israele cerca di recuperare le sue spie, perché
se non fa di tutto per recuperarle, altre persone dicono: “Mi spiace, non voglio fare
la fine di Pollard”. Quindi, è molto chiaro perché gli americani finora abbiano sempre
detto “no”. Spiarsi tra alleati, checché se ne dica, non è una cosa che si accetti
a cuor leggero. E il fatto che gli americani vogliano offrire questa possibilità,
è in realtà un tentativo molto evidente di ottenere uno scambio diretto – prigionieri
contro Pollard, che peraltro potrebbe interessare per il "quarto d’ora effimero" di
celebrità al governo Netanyahu – ma poi non cambia la sostanza delle cose sul terreno.
Questi tentativi sono sullo sfondo di una questione molto più importante, che è la
pace. Il resto è francamente secondario, e gli israeliani sanno benissimo, ormai da
qualche anno, che non sono più in cima ai pensieri non di questa Casa Bianca ma di
qualunque Casa Bianca. E' dai tempi di Clinton che la loro importanza strategica sta
continuando a calare.
D. – Non è un caso che l’Anp abbia rivolto questo ultimatum
a John Kerry. E quindi, cerchiamo di ricordare anche che ruolo hanno gli Stati Uniti
in questo momento …
R. – In questo momento hanno un "non-ruolo". E' dai tempi
di Clinton, dopo il fallimento dei negoziati di Wye Plantation che fu attribuito erroneamente
in toto ad Arafat - e questo è chiaramente una forzatura che non ha niente a che vedere
con la realtà storica - nessun presidente ha poi veramente voluto mettere in dito
in quel ginepraio, sapendo benissimo che in cambio di un’illusoria possibilità di
fare la pace, si sarebbe punto le dita su un sacco di contraddizioni che le due parti
hanno. L’idea che gli americani possano forzare gli israeliani è una mezza verità,
ma non basta questo per convincere un partner a fare la pace. Ci vuole qualcosa che
devono fare gli israeliani da una parte e i palestinesi dall’altra, e questo costa
molto, in termini politici.