Giornata di preghiera per i missionari martiri: il ricordo di p. Lanciotti e p.
Bizimana
Ieri è stata celebrata la 22.ma Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari
martiri, promossa dal Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie, nell’anniversario
dell’uccisione di mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador. Il tema
è stato “Martyria”, ovvero il richiamo alla dimensione essenziale dell’esperienza
di fede: la testimonianza al Vangelo di tanti fratelli e sorelle che hanno dato la
loro vita per il suo annuncio nel mondo. Tra loro padre Nazareno Lanciotti, fidei
donum, ucciso in Brasile nel 2001 dopo trent’anni di servizio per i più poveri
e in prima fila nell’ostacolare i progetti dei mercanti di droga e prostituzione nel
Mato Grosso. Sullo spirito che lo ha animato Gabriella Ceraso ha raccolto la
testimonianza della sorella, Francesca Lanciotti:
R. - La viveva
con tutto se stesso. Ha assunto la povertà di questa gente, perché diceva che non
si può stare in mezzo ai poveri e non sentirsi come loro: ha capito fino in fondo
la loro necessità sia materiale che spirituale. Ha costruito una chiesa, però ha pensato
anche all’ospedale e alla scuola. Ha coinvolto molto anche la popolazione che sentiva
che queste strutture alla fine erano le loro. Ha iniziato anche a fare un seminario
e quindi sono venuti fuori dei sacerdoti; adesso, uno di questi è addirittura vice
postulatore della causa in Brasile!
D. - Quali erano le cose in cui lui credeva?
R.
- La sua formazione era una una formazione benedettina: “Ora et labora”, quindi “prega
e lavora”.
D. - Perché è partito? Perché ha scelto questa strada?
R.
- Aveva aderito all’operazione Mato Grosso che lavorava per i poveri del Terzo
mondo. Lui aveva fatto un’esperienza del genere in Bolivia ed ha capito che c’è era
molto bisogno lì di sacerdoti.
D. - 30 anni di lavoro senza sosta. Quali erano
le forze che lo portavano avanti in contesti così difficili?
R. - Era devotissimo
alla Madonna e allo stesso tempo all’Eucarestia, perché tutti i giorni anche se andava
nella foresta, c’era sempre l’Adorazione e poi ha diffuso tantissimo il Rosario. Tutto
il resto, lui diceva, era frutto della Divina Provvidenza. La sua vita è stata veramente
un miracolo perché prima di tutto aveva Gesù e la Madonna sempre nel cuore e li portava
agli altri. Amava quelle persone come amava la sua famiglia!
D. - Quindi come
diceva, una vita per i poveri …
R. - Per i poveri sì, ma anche con molta devozione,
molta religiosità. Infatti, lui è stato ucciso perché la gente era ben formata sulla
strada della fede: pregavano, frequentavano tantissimo la chiesa e non entrava né
droga, né prostituzione. Quindi erano talmente forti nella fede, ma anche a livello
morale, che i malviventi avevano capito che tutto questo dipendeva dal sacerdote e
così hanno programmato un attentato. La persona, il killer incappucciato che gli si
è avvicinato, gli ha detto: “Io sono il demonio e tu ci dai troppo fastidio. Sono
venuto per ucciderti”.
D. - Padre Nazareno ha anche perdonato la persona che
lo ha ucciso …
R. - Sì. Ha pregato per i suoi attentatori, li ha perdonati.
Ha avuto il tempo, era lucido, di offrire la sua vita per il Papa, per la Chiesa,
per i sacerdoti.
D. - Le dico una cosa che ha detto il Papa sui martiri missionari:
“Sono cristiani impegnati ad amare sino alla fine per Cristo”….che ne pensa?
R.
- È così, fino alla fine. E lui ha ricevuto minacce - se lo aspettava - e tra l’altro
era responsabile, per il Brasile, del Movimento sacerdotale mariano e diciamo che
la consacrazione per quei sacerdoti è quella di offrire anche il sangue se necessario,
quindi era disposto a tutto.
D. - Che cosa, con la sua vita, con la sua testimonianza,
con il suo impegno, suo fratello le ha insegnato?
R. - Che bisogna essere testimoni
giorno dopo giorno; non abbandonare mai questo senso di responsabilità che abbiamo
verso gli altri. Non dobbiamo essere “cristiani di immagine”, ma cristiani concreti,
perché altrimenti allontaniamo le persone.
Testimone di Cristo in una terra
devastata dalla violenza, come era il Rwanda nei mesi del genocidio del 1994, è stato
padre Fabien Bizimana, assistente generale dei Barnabiti. In quei massacri
morirono anche 3 vescovi e una decina di sacerdoti: lo stesso padre Fabien fu vittima
di un assalto armato. Gabriella Ceraso ha raccolto la sua testimonianza:
R. – Riconosco
che, seppure, sia stato veramente drammatico quell’evento, è stato però anche un momento
molto cruciale della testimonianza. I cristiani sono stati messi alla prova ed è stata
un’occasione per dimostrare che il Vangelo non è una favola, ma è una realtà, è una
vita.
D. – Testimoniare, in queste circostanze, che cosa significa? Proteggere,
amare...
R. – Per me vuol dire rendere il Vangelo una realtà e il riassunto
del Vangelo è l’amore; dare quindi prova dell’amore e della speranza che è dentro
di noi.
D. – Lei ha visto, è stato testimone, di religiosi che hanno perso
la vita...
R. – Nel 1994 mi trovavo proprio presso la nostra casa di formazione
a Cyangugu, in Rwanda, e abbiamo visto con i nostri stessi occhi sacerdoti trucidati,
e non solo sacerdoti, ma pure gente che veniva affogata nel lago Kivu, lì vicino.
Noi ci siamo salvati, perché eravamo congolesi, solo per questo, altrimenti ci avrebbero
ammazzati tutti.
D. – E che cosa si fa per aiutare la gente, quando c’è tanto
odio, oppure come in altre zone del mondo, c’è tanta malavita e ci sono comunque tante
violenze legate ad altri traffici?
R. – Il missionario, se accetta che la sua
vita diventi un’offerta, non ha bisogno di molti discorsi per far capire che è dalla
loro parte. Si rende credibile con i suoi fatti, con la sua vita quotidiana. Dopo
di che il suo discorso diventa trasparente, diventa realtà. Secondo me, molti sacerdoti
si sono salvati anche perché i loro parrocchiani o i loro fedeli credevano in loro
veramente, vivendo quanto predicavano.
D. – Allargando l’immagine dal Rwanda,
tutta l’Africa è un crogiolo purtroppo di tante violenze in cui i martiri abbondano.
Cosa può dire in una giornata che li ricorda tutti?
R. – L’Africa si salverà
solo tornando ai valori che hanno fatto sì che i nostri antenati, i nostri genitori
vivessero quanto hanno sempre messo in evidenza, cioè la solidarietà. Ricorderei qui
uno dei martiri del Congo, mons. Musiro, che diceva: “Non è colpa di nessuno se nasce
tutsi anziché nascere hutu oppure di un’altra etnia”. Siamo tutti fratelli. Quando
capiremo che, veramente, solo questa fratellanza universale, solo la solidarietà può
ancora dare all’Africa un’era nuova di sviluppo?
D. – E può testimoniare quello
che il Papa dice, cioè che i martiri sono discepoli di Cristo, che hanno imparato
il significato della parola “amare” sino alla fine?
R. – Io stesso sono stato
vittima di un assalto di persone armate nella nostra parrocchia. Eravamo solo io con
il mio confratello, ma in quella notte, mentre ero picchiato a sangue, tre persone
hanno perso la vita fra quelli che venivano in nostro soccorso, in nostro aiuto; e
lì ho visto con i miei stessi occhi come uno può arrivare a spendere, a dare la propria
vita per un fratello.
D. – Il cristiano è proprio colui che ama sino alla fine
...
R. – Sì, è proprio questa la definizione del cristiano. Il Vangelo si riassume
proprio con la parola “amore”.